EARTH, Full Upon Her Burning Lips
Il nuovo lavoro a firma Earth segue un disegno ben preciso: ridurre all’osso l’organico (i soli Dylan Carlson e Adrienne Davies) per lasciare che la musica assuma la sua forma più pura e il minimalismo permetta alle composizioni di risaltare nella loro nudità. Anche il processo creativo ha lasciato spazio allo sviluppo dinamico, programmando poco sia dal punto di vista strumentale che da quello concettuale, così che l’album prendesse una propria direzione quanto più libera e spontanea possibile. Il risultato è che torna prepotentemente protagonista la ricerca degli Earth, da sempre indirizzata a cogliere il nucleo dei suoni e la grammatica base della musica tradizionale, privata di ogni appesantimento formale e giocata sulla dilatazione e la reiterazione delle melodie. Ci si ritrova, quindi, dalle parti di lavori come Hex o – ancora di più – The Bees Made Honey In The Lion’s Skull, con una sorta di indagine sulla forma archetipa (mi si passi il brutto termine) della musica americana, di cui ormai gli Earth sono campioni indiscussi e incontrastati. Per assurdo, l’effetto finale di questo percorso all’interno di un giardino botanico dedicato alle erbe medicinali e tossiche è quello di un viaggio senza tempo attraverso la discografia della formazione, con un continuo effetto déjà vu dovuto non tanto all’effettiva similitudine di alcuni frangenti con quanto ascoltato in passato, ma alla volontà di carpire l’essenza dell’approccio di Carlson e del suo linguaggio d’adozione. Qualcuno potrebbe ben obiettare che alla fine sembra di essere finiti in un loop in cui, a meno di andare a scoprire dettagli e sfumature, il tutto tende a ripetersi in una serie continua di cerchi concentrici e vortici che sposano la teoria dell’eterno ritorno, della costante pulsione a tornare sui propri passi per ripartire alla volta di nuovi pellegrinaggi mai troppo distanti da sé stessi. Ecco, qui sta forse la vera sfida di Full Upon Her Burning Lips: offrire al proprio pubblico una fotografia dello stato dell’arte, un’istantanea di ciò che più assomiglia al cuore della band e della sua produzione artistica (almeno a partire dal comeback discografico del 2005, dopo una pausa durata quasi dieci anni), in un continuo reinventarsi e ripensarsi senza provocare mai una vera rivoluzione. La bellezza del risultato finale e la capacità di ammaliare l’ascoltatore sono fuori discussione, mentre ciò che lascia un sapore strano in bocca è la sensazione di trovarsi al cospetto di una sorta di sintesi o “resa dei conti” priva di un vero slancio verso il futuro e di indiscrezioni su ciò che accadrà ora. Il che, al contrario, potrebbe essere anche visto come lo stratagemma per lasciarsi alle spalle una fase per prepararsi a successivi stravolgimenti. Queste però sono solo speculazioni: ciò che davvero conta è che gli Earth abbiano saputo ancora una volta lasciare una traccia del loro passaggio e di questo non possiamo che ringraziarli.
Nota a margine: solo un caso che proprio di recente anche i Sunn O))) abbiano in qualche modo deciso di guardarsi indietro per tornare con un disco che in qualche modo riporta a casa il loro suono? Vedremo se questa è solo una coincidenza o c’è dell’altro.