DYNFARI, The Four Doors Of The Mind
Jóhann Örn, cantante e chitarrista della band islandese, parla del nuovo disco come di un viaggio attraverso dolore, pazzia e morte, un tema di certo non inusitato o esente da precedenti trattazioni anche in campo metal. Ciò che rende interessante l’approccio dei Dynfari al tema è il prendere le mosse dalle teorie dello scrittore Patrick Rothfuss e dell’esistenzialista Jóhann Sigurjónsson per costruire un percorso che vede nella follia e nella morte non una conseguenza tragica del dolore, bensì un superamento di questo e un modo per ritrovare la pace. Ulteriore tassello imprescindibile per comprendere questo concept (non è un dilungarsi sterile sulle note biografiche) è la connessione tra queste teorie e l’esperienza personale dello stesso Jóhann, affetto da una malattia autoimmune, costretto dunque a curarsi con terapie dolorose e a riconsiderare l’idea stessa della morte. Questo preambolo può chiarire l’andamento apparentemente capovolto dell’album, che è composto da una prima parte in cui il black metal appare in modo più prepotente e una seconda nella quale maggior spazio è dato alla componente post-rock e alle aperture melodiche, fin verso la conclusione, in cui, appunto, follia e morte vengono viste come distacco dal dolore e momenti di pace e bellezza, esiti di un approccio positivo di accettazione non passiva, ma costruttiva: un mezzo per non arrendersi allo sconforto. Sebbene la consapevolezza del concept renda più immediata e in qualche modo completa la fruizione di The Four Doors Of The Mind, in realtà il disco non necessita di sovrastrutture per essere apprezzato nella sua componente sonora, un mix ben calibrato di metal estremo, post-rock, partiture guitar ambient e aperture alla tradizione (con strumenti acustici), reso con cura nei dettagli ed evidente convinzione. Proprio l’ultima traccia, quella dedicata alla morte, lascia andare completamente la componente black metal e nei suoi tredici minuti immerge l’ascoltatore in un’atmosfera onirica di pura pace alternata a cavalcate tanto liberatorie quanto prive di aggressività/rabbia (diremmo catartiche), in cui abbandonarsi per assaporare appieno la riconciliazione con un’immagine solitamente associata a ben altre emozioni.
Per assurdo, questo è un lavoro che potrebbe piacere molto a chi viene dalla scena postcore, a dimostrare come alla fine le due scuole si stiano incontrando su più fronti e siano sempre più interconnesse. Ancora una volta ci sentiamo di promuovere in pieno i Dynfari e la loro voglia di rileggere le loro radici in modo personale e coraggioso.