Due giornate di ParmaJazz Frontiere Festival: Parker/Phillips e Human Feel
Ventiduesima edizione per il festival ParmaJazz Frontiere, della quale avremmo voluto seguire senz’altro più tappe, visto che ad oggi abbiamo potuto apprezzare solo due serate. La manifestazione comunque va avanti fino al 12 dicembre (per consultare il programma andate qui).
EVAN PARKER / BARRE PHILLIPS, 27/10/2017
Parma, Teatro Farnese.
Come suggerito dal direttore artistico e musicista parmense Roberto Bonati nel libretto di presentazione del denso programma di “Frontiere” (costantemente attento ai suoni liminari, alle esperienze di contaminazione, con un’inclinazione speciale per il jazz europeo e del Nord, in tutte le sue forme) è sempre importante stare nella foresta degli inizi. E proprio lì ha luogo musicale l’anteprima del festival, nella spettacolare cornice del palcoscenico del teatro Farnese (un vero e proprio gioiello che sarebbe bastato da solo come motivo per essere presenti), nella selva dei suoni primordiali, dove i rabdomanti Barre Philipps ed Evan Parker si incontreranno e discuteranno per un’ora di purissimo rapimento.
Entrambi i musicisti non hanno certo bisogno di presentazioni per chi segue le vicende dell’improvvisazione, mi basterà ricordare brevemente e in modo del tutto arbitrario (la carriera dei due è sconfinata) il capolavoro del 1971 (su ECM) Music For Two Basses a firma Phillips/Holland oppure le vertigini dell’ElectroAcoustic Ensemble di Parker (con, tra gli altri, il nostro Walter Prati al computer processing), sempre per l’etichetta di Manfred Eicher (ma non solo, anche per psi e Victo). Il contrabbassista di San Francisco, alla veneranda età di 83 anni (compiuti proprio la sera del concerto), si mostra energico e completamente disinvolto, capace di suonare il proprio strumento in ogni maniera possibile, capovolgendo l’archetto, rendendolo percussivo, rantolante, astratto, cupo, lasciando le corde scandagliare profondità novecentesche, giocando con la pura meraviglia del suono nel suo farsi, mentre il sassofonista di Bristol, di dieci anni giusti più giovane, è come al solito rigoroso e solenne nelle sue perlustrazioni circolari, come un mantra bianchissimo che del jazz conserva le strutture armoniche, la libertà, ma che ha un che di contemporaneo e di minimalista al tempo stesso, per una delle voci più personali e riconoscibili del panorama attuale, capace di non annoiare mai pur affrontando, in contesti come questo, discorsi che non ci troviamo a sentire per la prima volta. Molto spesso, però, sono le parole non dette quelle più importanti, quelle che rendono il vero senso del tutto, e Parker ha il pregio di non mettere mai nemmeno una nota di troppo nel vortice freddo che porta sul palco, comunicando perfettamente col contrabbasso idiomatico e poliglotta di Phillips. Due “discorsi” che tentare di descrivere sarebbe probabilmente pretenzioso, come farlo con un quadro di Pollock, e due momenti in solo per un concerto totalmente improvvisato che ha saputo portarci nelle profondità più intime del suono primordiale.
JIM BLACK – HUMAN FEEL, 26/11/2017
Parma, Casa Della Musica.
Detto che è stato un grande rammarico aver perso, nell’ordine, il duo di Barry Guy e Savina Yannatou, il quartetto di Filippo Vignato ed il trio Sclavis/Pifarély/Courtois (con il primo protagonista di un concerto molto avvincente con l’Atlas trio nel 2012 proprio qui alla Casa della Musica), arriviamo al progetto del batterista Jim Black, chiamato Human Feel, che celebra con questo tour il proprio venticinquesimo anno come quartetto. Oltre al leader seduto dietro ai tamburi e alle electronics (che avremmo voluto sentire più presenti, perché quando ci sono state hanno portato una felice alterità alla formula proposta) completano la formazione Kurt Rosenwinkel alla chitarra, Chris Speed al sax tenore a Andrew D’Angelo al sax contralto. Belli gli scambi tra le due ance, con D’Angelo a fare la parte del guastafeste mostrando grande padronanza (tutti i musicisti sono eccellenti dal punto di vista tecnico, su questo non si discute) della situazione e, come detto, una bella intesa col suo compare (che ha collaborato con gente del calibro di Uri Caine, tanto per dirne uno). Molto azzeccata la scelta timbrica, con la chitarra – a mio modo di vedere un pochino troppo educata e corretta – a fare a volte le veci del basso. Personale e obliquo, sebbene a volte un poco troppo sovraccarico, il batterismo di Black, che in alcuni momenti indulge in stilemi quasi rock un poco interlocutori e che non paiono sempre a fuoco. La scioltezza dei musicisti nel percorrere ripidissimi saliscendi, nel passare da obbligati serrati a forme più libere è incontestabile, la scrittura dei pezzi non mi è parsa però sempre così necessaria ed urgente come dovrebbe essere con questo tipo di formula. Ci sono momenti che fanno ricordare in parte le diaboliche partiture degli SnakeOil di Tim Berne, ma laddove con quel quartetto il clima era sempre febbrile e trascinante, qui in qualche frangente la musica pecca forse un poco di rigidità, quando invece la varietà di soluzioni proposte e la grande bravura dei musicisti avrebbero potuto portare, con una briglia più sciolta, per così dire, a risultati senz’altro entusiasmanti. Così è stato nel bis, selvatico e affilatissimo, con Black alle electronics e un clima felicemente straniato e straniante che ha strappato un applauso finale convinto per una band di musicisti di altissimo livello ma forse in questa dimensione non ispirati al massimo.