Due dischi Zen Hex: Gigi Fagni e Lēvo
Torniamo a occuparci di Zen Hex, etichetta carbonara con indole “artigianale”, non nuova su queste pagine, recuperando due brevi uscite lanciate a fine febbraio, entrambe in digitale e vinile, in tirature da nicchia.
Gigi Fagni, tattoo artist in quel di Firenze al suo esordio musicale, firma un libretto illustrato ispirato dalle teorie di Franz Anton Mesmer sul “magnetismo animale” e alla relativa soundtrack per solo basso distorto. Un unico pezzo di circa venti minuti, tra sferragliate noise e bordoni in loop con inedito piglio punk. A livello sonoro tutto parte e tutto ritorna a un unico tema principale ben scandito dalle quattro corde del musicista, dai toni quasi enfatici, liberatori, punto di partenza e di arrivo di sfaldamenti e accelerazioni, caverne di feedback e sbandate metalliche psichedeliche; la conclusione, invece, è una pioggia casuale dei bzzz di una macchinetta per tatuaggi. La cosa interessante è la foga con cui Gigi Fagni si lancia in questo percorso: in alcuni momenti pare di ascoltare il classico tupa tupa hardcore, e l’entusiasmo è palpabile. Sparandola grossa, si tratta di un mix tra Blind Idiot God e Lightning Bolt, entrambi ridotti all’osso e costretti a restare in modalità drone-on. Forse non tutti i 23 minuti del disco sono gestiti con efficacia, e a volte si ha l’impressione che procedano un po’ a caso, ma come esordio ci siamo.
Materiale di tutt’altra pasta quello proposto dal toscano Lēvo, all’anagrafe Lorenzo Cardeti, autore di questo sette pollici con serigrafia di Elisabetta Caizzi Marini e – annesso – un mini racconto di Johnny Mox. Due tracce di morbida elettronica in battuta bassa e dalle tinte noir, densa e cinematografica. Atmosfere trip-hop e impianto house costellato da percussioni etno e cori afro, inserti di piano e ampi respiri dub sottotraccia; un po’ come faceva certa elettronica di area “leftfield” del passato. Lēvo ci mette del suo coniugando il materiale con eleganza e cognizione di causa, tirando bene i fili emozionali della faccenda e infondendo il giusto pathos al tutto. Se “Mbombo”, con quel piano made in Bristol che fa capolino, è più malinconica, “Savanero” ha dalla sua un maggior senso di inquietudine, con quella bassline tremolante, ma in entrambi i casi ci si lascia sospingere languidi dal pulsare degli eventi. Probabilmente si sente la mancanza di qualche deviazione rispetto a un percorso troppo confortevole e un po’ ingessato, ma per chi apprezza queste sonorità, quello del toscano è un nome da tenere d’occhio.