Due dischi dalla Palestina: Muqata’a e Julmud
Ramallah è – al di là delle rivendicazioni su Gerusalemme – capitale di fatto della Palestina e cuore pulsante del Paese, città in cui maggiormente si respirano modernità e convivenza pacifica e luogo dove, nonostante le annose e ben note difficoltà, è ancora presente un certo fervore culturale. Il respiro internazionale della scena locale appare manifesto non appena si mettono le orecchie sui lavori di Muqata’a, producer e mc da anni attivo in varie realtà underground fra cui la piattaforma multidisciplinare Bilna’es (che pubblica il disco di Julmud). Muqata’a mantiene indubbiamente un forte legame con le proprie origini (il nickname stesso fa riferimento a “La Separata”, il quartier generale dell’Autorità Nazionale in cui è sepolto Yasser Arafat), ma nello stesso tempo non rinuncia a trascendere i confini con il proprio suono, tanto che di lui si è accorto da tempo Wire: l’autorevole magazine inglese ha addirittura inserito nella sua amata/odiata classifica di fine anno questo disco uscito a inizio 2021, da poco disponibile in vinile pubblicato dall’italiana Hundebiss. Nelle tracce contenute in Kamil Manqus, il producer palestinese sembra guardare con determinazione e lucidità a Occidente senza riuscire però a distogliere lo sguardo dal proprio retroterra, quel Medio Oriente mai esibito ma sempre filtrato a dovere, attraverso le frequenze di una radio dimenticata accesa – quasi un elemento di disturbo – oppure pesantemente manipolato, o ancora presente in filigrana, malcelato fra le pieghe di una musica che suona perentoria e drammatica, come se lontane sullo sfondo si stagliassero le difficili esistenze di un territorio così complicato, una sampledelia in cui l’adesione ad un’estetica occidentale che costeggia i lidi della conceptronica va di pari passo con la connotazione territoriale.
Tuqoos costituisce invece l’esordio su disco di Julmud, di base sempre a Ramallah. Qui ritmica e linee di basso rimangono preponderanti, mentre notevoli sono la ricerca e la combinazione di suoni e campioni di origine eterogenea, la cui provenienza rimane sovente di difficile individuazione. Anche in questo lavoro ci si spinge spesso e volentieri lontano dal punto di partenza, tenendo insieme in maniera credibile Oriente e Occidente, stili diversi e distanti fra loro: rap, trap, dabke (la Siria di Omar Souleyman non sembra poi così lontana), shaabi, pop indigeno, suoni della tradizione e strani esperimenti di downpitch. In sostanza, quelle di Muqata’a e Julmud sono due proposte più che valide non tanto/non solo per amanti delle sonorità esotiche.