Due dischi Cardinal Fuzz: Gunslingers e Human Hand
Gunslingers è un nome che forse in pochi conoscono (io non sono tra questi), sia perché la popolarità della band è molto limitata in Europa, sia perché non c’erano novità sul fronte da ormai dieci anni. Il demiurgo della formazione transalpina è Gregory Raimo, classe 1977, di Grenoble, artista, musicista, pittore e frontman dei Gunslingers, oltreché solista a sigla GR e fondatore dell’etichetta Opaque Dynamo, che dirige dal 2016. L’esordio della band, No More Invention del 2008, indirizzava il trio verso un high energy r’n’r – dalle velleità sperimentali – che faceva pensare ai mostri sacri della Motor City, ai Velvet Underground, ai Les Rallizes Dénudés oppure a una risposta francese agli Ecstatic Vision. L’esordio valse l’attenzione di nientepopodimeno che Julian Cope, il quale salutò con entusiasmo l’uscita dei Gunslingers, arrivando a decretare che i negozi di dischi sprovvisti di No More Invention avrebbero dovuto chiudere all’istante. Il vecchio Cope purtroppo non fu buon profeta e – tranne un risicato peregrinare per gli USA – loro patria per elezione, i Gunslingers fino a oggi hanno compicciato poco, se non pubblicare un secondo album, Manifesto Zero, e un ep, Massacre-Rock Deviant Inquisitors. A dieci anni di distanza, la convergenza delle forze di Cardinal Fuzz, Opaque Dynamo e Feeding Tube Records ci consegna un terzo disco, Supreme Asphalt Doser, in cui Raimo e soci tirano a lucido sonorità forse “passate”, ma molto amate, almeno da queste parti. Non ci sono trucchi né inganni, solo antagonismo proto-punk (“We’re The Real Sinners, Detuned For Cheap”), gorghi impro (“Sucked Into The Bottom”), inni anfetaminici a Iggy Pop (“Supreme Asphalt Doser”) e un finale tra free e space che sfiora i dieci minuti (“Rebop From Arthur Lipsett’s Fluxes”). Uscita azzeccatissima per i fan del genere: non fate passare altri dieci anni per scoprire i Gunslingers.
Questione totalmente diversa per gli Human Hand, trio del Lancashire, composto da membri di Transelement, Wolf People, Mums e Honey Spiders. Joe Hollick, Karl Eden e Jonathan Dickin debuttano con Tremor, album composto da lunghe tracce di fluente heavy-psych con influenze orientaleggianti. Oltre alla tecnica indiscussa dei tre, si percepisce però una certa freddezza, che né l’utilizzo di strumenti esotici (vedi il sitar in “Teeth”), né il susseguirsi minaccioso di riff su riff riescono a scalfire. Curioso che la band si definisca “noise”, in quanto solo la title-track può essere definita tale e quando solo qualche spigolatura post-noise emerge qua e là in un album che sostanzialmente segue il copione di artisti come i primi Kikagaku Moyo e Upupayāma, che abbiamo trattato di recente: dalle suggestioni d’Oriente (“Teeth”, “Triffid”), al doom-rock (“Tyrant”), fino al folk meditativo (“Tern”) e a geometrie kraut (“Tooth”). Massima stima e simpatia, ma ormai verrebbe quasi da fare un giochino alcolico sulle uscite mensili di questo tipo.