DROWSE, Wane Into It
Hauntology: situazione di disgiunzione temporale, storica e ontologica in cui la presenza apparente dell’essere è sostituita da una non-origine rinviata, rappresentata dalla figura del “fantasma come ciò che non è né presente, né assente, né morto”.
Partiamo da questo concetto per inoltrarci in questa nuova creatura dell’etichetta The Flenser, che – fedele al motto del “famolo strano” – produce la quinta uscita di Kyle Bates, in arte drowse. Un disco che parla di memoria e di echi passati che riverberano nel presente, un processo di documentazione del ricordo che parte dalla forma imperscrutabile della nostalgia. Hauntology, insomma: non c’è miglior concetto per inquadrare questo Wane Into It, opera oscura che fruga nelle torbide pieghe della mente, trovandoci presenze infestanti che sono allo stesso tempo residui del passato e frammenti di un futuro mai esistito. In questo limbo asettico si incunea lo slowcore agonizzante di drowse, che per l’occasione viene affiancato in cabina di regia da Madeline Johnston, conosciuta anche come Midwife (caldamente consigliato recuperarsi il suo Luminol del 2021). La coppia costruisce una nebbia densissima di trame dark in equilibrio tra dream pop e shoegaze, capace di creare quella malinconia sognante che sa quasi di dolce beffa. L’apertura con “Untrue In Headphones” detta fin da subito il ritmo di questa danza tra residui mentali, seguito dall’incedere possente di “Mystery Pt. 2”, una fiaba scurissima infestata da demoni freddi come la notte più buia. Il primo terzo di disco – che riecheggia piacevolmente nell’abisso creando tutti i presupposti per un’infinita discesa nell’assenza di luce – permette di assaporarne tutti i pregi. Proseguendo, però, l’artista si ripiega sul suo scheletro, avviluppando le note in uno shoegaze troppo derivativo e disomogeneo (come nel caso di “Gabapentin” e della sbiadita “Blue Light Glow”), che appare proprio come quella maglietta che ami tanto dopo il miliardesimo lavaggio: un simulacro di ciò che è stata, una pallida copia di sé stessa. Qui le poche idee si trascinano stancamente per inerzia verso la loro inevitabile involuzione, sottolineando tutti i lati più acerbi del lavoro.
Per fortuna, però, per l’ultima parte di lp si risale la china, e risulta evidente che il meglio è riservato per la fine. Una coda sonora che si incolla all’anima come la pece più nera, con un potere evocativo strabordante. È la sezione in cui si può maggiormente apprezzare la spinta quasi drone del disco, con un letto oscuro di mormorii elettronici che sono perfetta scenografia per gli ultimi scampoli di tenebre, con la finale “Ten Year Hangover/Deconstructed Mystery” che diventa epitaffio per un album imperfetto ma strenuamente evocativo. Wane Into It è costruito per gli spazi infiniti dentro di noi, per quelli che conosciamo ma soprattutto per quelli di cui ancora ignoriamo l’esistenza.