Dragged Into Sunlight, gli ammazza-mariti
Tre tizi incappucciati, una partoriente sul tavolo a gambe divaricate. Sanguina tanto, sanguina anche la Luna. La sua creatura trascinata alla luce dal demonio. Chiunque ascolti metal, si compri un paio di riviste o navighi su internet ci sarà sicuramente finito con lo sguardo sopra, come capita con gli incidenti stradali: la copertina dell’esordio dei Dragged Into Sunlight è un buon metodo per incuriosire, non tanto per la solita violenza gratuita, ma per il tratto primitivo in bianco e nero dell’autore, quel Justin Bartlett che conosciamo in Italia grazie al lavoro fatto per Solve Et Coagula dei The Secret, ma che in generale non sarà sfuggito allo sguardo dei fan della Southern Lord, vedi la cover per i Trap Them e un paio di commissioni per i Sunn O))).
Dare angeli in pasto alle sanguisughe
Sono inglesi, le riviste dicono di Liverpool (ma loro sostengono di vivere molto lontani uno dall’altro), apparentemente non di primissimo pelo e con dei lavori normali. Apparentemente, perché al momento non si sa chi sono e nelle foto ufficiali nascondono la faccia (non durante i live, nei quali però – vezzo di certo hardcore? – danno le spalle al pubblico). Li ha scoperti nel 2009 la Mordgrimm (cioè la ex Cacophonus), talent scout formidabile con in catalogo Anaal Nathrakh, Eagle Twin, Pombagira e – di buon auspicio – i nostri Grime. Prodotto da Tom Dring e Billy Anderson (al lavoro con Eyehategod, Neurosis, Melvins…), Hatred For Mankind ha ricevuto un’accoglienza incredibile, tanto da essere ristampato in varie edizioni non solo da Mordgrimm, ma anche dalla Prosthetic, che quest’anno pubblica il loro secondo disco, Widowmaker. Come la sua copertina, Hatred For Mankind è grezzo, volutamente imperfetto e senza limiti. La band cerca e ottiene un mix acidissimo di sludge, black metal e death vecchia scuola, nel quale si perde anche una voce tipo maiale sgozzato. Niente pulizia, niente bilanciamento tra le parti, moltissimo del cosiddetto “feeling”, nichilista e disperato. I Dragged Into Sunlight, come dimostra l’ultima traccia (e la cassettina uscita prima di questo esordio, intitolata Terminal Aggressor), non ignorano nemmeno le evoluzioni drone/noise del metal estremo: vivono nel feedback e nelle distorsioni, aggiungendo ai pezzi campionamenti vocali tratti da materiale audiovisivo sui serial killer, per quella che sembrerebbe essere una loro vecchia fissa, soddisfatta raccogliendo per anni documentazione su questi soggetti.
Un passo di lato
Col tempo i Dragged Into Sunlight si fanno conoscere di più, suonano al Roadburn, al Maryland Deathfest e girano gli Stati Uniti con i Cough e i Make, e registrano un secondo disco assieme a Tom Drings (Vagrant Studios, sempre Liverpool): Widowmaker si guadagna i favori di Terrorizer (streaming completo e disco del mese), che intervista la band. Strano, perché non si parla di evoluzione del sound, piuttosto di un’altra testa di Cerbero. Widowmaker, in buona sostanza, è una traccia di quaranta minuti spezzata in tre parti, pare composta e rielaborata nel corso di due anni. Il primo episodio vede il suono scarno di una chitarra camminare da solo per alcuni minuti di depressione, incrociandosi poi con quello di un violino. Questo ha già portato qualcuno a scomodare vari totem post-rock e altro, quando chi abita nello stesso Paese dei My Dying Bride forse ha solo ricominciato ad apprezzare una parte della sua collezione di dischi che non sentiva da un po’. Comunque sia, un inizio davvero struggente, che pian piano monta accompagnato da soffi di vento. Poi, un minimo prevedibile, l’esplosione sludge, qualcosa che fa venir voglia di dare una gomitata nei denti al primo che passa. Si torna al marciume Hatred For Mankind, ma con pesantezza/lentezza come obiettivo, laddove prima le accelerazioni black recitavano un ruolo non da poco. Rimangono invece – oltre agli immancabili sample vocali – i legami con certo death (loro citano i Disembowelment). Del resto, come lascia pensare l’introduzione, questo è un po’ il disco nel quale i quattro illustrano il loro rapporto col doom. Mentre si riflette su tutto questo, torna a inserirsi il violino, peraltro alla grande (non si sa chi si occupi dello strumento e se comparirà nei live, contesto nel quale pare che ci saranno dei visual curati da un certo Dwid Hellion). La terza parte accantona per un po’ la follia, rallenta moltissimo, gioca coi feedback e coi loop, si fa nuovamente scarna, ma non lesina un ultima devastante (e veloce) fiammata. Non che la dialettica pieni/vuoti sia questa grossa novità, ma nel caso specifico qui si parla di un gruppo che si è mostrato capace di esplorare territori diversi conservando un approccio sporco che minimo minimo attacca il tetano. Notevole ancora una volta l’artwork, opera del norvegese Sindre Foss Skancke, che qualcuno conoscerà anche perché suona negli Utarm. Non a caso un paio di anni fa proprio Bartlett ne parlava bene su Alarm Magazine, cosa che – oltre a chiudere il cerchio – non sorprende, visto lo stile scabro e quasi medievale dell’uomo, pieno di simbologie disturbanti e tutte da interpretare. Sia Justin sia Sindre, poi, hanno qualche cosa in comune con l’arte di Nick Blinko dei Rudimentary Peni, altra influenza dei Dragged Into Sunlight, che dentro di loro sono dei punk.
Con Widowmaker si dovrebbe chiudere un primo ciclo di uscite di questa band molto interessante. Ormai hanno la possibilità di suonare in giro per il mondo, vedremo se sapranno salire ancora qualche gradino e continuare a scorticarci.