Dooom Orchestra, incessante mutevole golem
Letteralmente, doom è il fato avverso, la sventura, il destino ineluttabile. In lingua inglese, Doomsday è il Giorno del Giudizio. Ma noi non parleremo di morte e distruzione con la Doom Orchestra perché il nostro interlocutore è la DOOOM Orchestra. Una O in più rende il suono decisamente meno sinistro e più simile ad un’onomatopea, esattamente come VROOM, termine che sempre nella lingua inglese descrive il rombo di un veicolo (e che incidentalmente è anche il titolo di una traccia crimsoniana). Non citiamo i King Crimson a caso: pur con tutti i distinguo esiste un sottile filo rosso che lega le due formazioni.
Se questi ultimi in un lontano passato sono stati capaci di proporre una scrittura creativa e contaminata, abbattendo barriere e favorendo organici aperti, allo stesso modo DOOOM Orchestra (fondata nel 2018 da Francesco Cigana) è sinonimo di creazione collettiva, ponendosi nel panorama attuale come apicale esperimento improvvisativo: dodici musicisti, sei anni di sperimentazioni, concerti e prove in cui le connessioni tra i singoli artisti si sono radicalizzate al punto che Our Sea Lies Within (Aut Records, 2024) suona sconfinato e strutturato, paradossale e analitico: suona con una O in più. Intervista pubblicata in origine su Collettivo Inconscio.
L’enigma della musica improvvisata. Il confine tra istinto e ragione, regola e intuizione in questo flusso di coscienza musicale controllato.
Nina Baietta (voce): L’improvvisazione è una pratica quotidiana. Può essere esercitata sullo strumento, nella verbalizzazione di essa, nell’approccio alla vita. È una pratica che cambia con te, con la tua voce, con la tua emotività, cambia a seconda di dove la guardi, a che punto sei. E quando pensi di averci capito qualcosa, ti fermi e ricominci da capo. Sempre. Credo comunque ci siano tre fasi della vita di una improvvisatrice o improvvisatore: istinto, ragione e “la musica che sta in mezzo”. Al compimento delle prime due, la ricerca della terza dura tutto il resto della vita.
Marco Valerio (basso elettrico): Questo confine che hai ben descritto è pericolosamente sottile e la perizia in questo tipo di improvvisazione sta esattamente nel riuscire a percorrerlo senza mai uscirne. Siamo come equilibristi sulla fune e la nostra asta sono le orecchie.
Enrico Milani (violoncello): Forse è vero che la musica improvvisata pone sempre un enigma, l’enigma della realtà dell’improvvisazione. Nella DOOOM abbiamo sempre preferito lasciare la questione aperta, come se si trattasse, più che di una domanda a cui dare risposta, di una regola per l’azione. Come far sì che l’improvvisazione sia reale, come far sì che il gesto compositivo estemporaneo, individuale e collettivo, non sia né riproposizione né casualità? Definendo uno spazio operativo di studio, individuale e condiviso, che dà spazio tanto alla parte istintiva quanto a quella cerebrale.
Francesca Baldo (violino): Non esistono regole ma intenzioni che si manifestano, compresa quella di non voler seguire alcuna disposizione prestabilita. L’intenzione musicale, intesa come partecipazione della volontà e della ragione nel decidere cosa o come suonare, si manifesta nel singolo e nel collettivo in un unico flusso musicale. I parametri variano in ogni situazione, elementi lineari e non lineari si manifestano secondo le intenzioni di ognuno. Per questo, istinto e ragione coesistono ineluttabilmente e il confine tra essi varia in base a ciò che accade e a come si trasforma nel tempo.
Andrea Davì (batteria): Pensare troppo fa male alla musica. Anche cercare di capire quello che sta succedendo nella stanza, forse. Penso basti solo un po’ di mente e lo stretto necessario per tenere le orecchie aperte.
Jacopo Giacomoni (sax alto): La DOOOM cerca di dare una forma, un controllo – per quanto possibile – a questo flusso attraverso l’ascolto che in fondo è la più banale e complessa delle pratiche improvvisative. Come diceva Pauline Oliveros, l’ascolto è una forma di composizione: è un’azione, non un gesto passivo. Per ascoltare, ma soprattutto per ascoltare all’interno di un ensemble di dodici musicisti, è necessaria molta disciplina, molte prove.
In sintesi, il suono di un’orchestra che improvvisa è un’estensione dell’ascolto e affinché l’ascolto – e di conseguenza il suono – siano a fuoco c’è bisogno di tempo, di una predisposizione d’animo condivisa, c’è bisogno di molti errori e anche di parlare insieme di questi errori. L’enigma non si risolve, ma quanto meno nella DOOOM c’è il faticoso tentativo di concepire l’improvvisazione come un percorso di crescita condiviso.
Andrea Zerbetto (piano): Il processo mentale che si manifesta durante la performance improvvisativa risulta a me piuttosto oscuro. Posso dire che mi ricorda, per certi versi, la performance jazzistica, dove vengono utilizzati dei materiali musicali che sono stati prima studiati (e possibilmente assimilati) e solo in un secondo tempo applicati secondo l’istinto del momento.
Un altro paragone abbastanza calzante riguarda la conversazione in una lingua straniera: si studiano i vocaboli, la sintassi e le frasi tipiche, lasciando che poi questi diventino strumenti per esprimere un proprio pensiero e reagire a ciò che gli altri dicono. Tutto ciò è vero anche in questo caso, con la differenza che non si parte da un “terreno comune” prestabilito (come la struttura di uno standard nel jazz o un argomento di discussione in una conversazione) ma questo viene creato di volta in volta basandosi sulla fiducia nella sensibilità reciproca dei musicisti.
Dunque, per la mia personale esperienza, in questo tipo di musica l’istinto gioca un ruolo fondamentale durante l’atto improvvisativo mentre il pensiero analitico giunge in un secondo momento, come riflessione in merito a ciò che si è appena fatto, permettendo quindi di valutarne le caratteristiche, i punti di forza e i punti deboli e – in ultima analisi – di individuare i possibili margini di miglioramento.
Agnese Amico (violino): Sì, penso sia qualcosa del genere, ma alla fine istinto/ragione, regola/intuizione vale per tutta la musica, no? Alla fine in una compagine grande quel che serve di più è avere Grandi Orecchie.
Francesco Salmaso (sax tenore): A musica improvvisata personalmente preferisco musica creativa o del presente. Credo che in questo tipo di espressione artistica non ci siano confini e anche per questo è una musica così attuale. Siamo delle spugne che assorbono continuamente ogni tipo di influenza e all’interno della DOOOM abbiamo la possibilità di portare le nostre identità senza un controllo se non quello di avere un grande rispetto per le persone con cui stiamo suonando.
Se vogliamo, l’unica regola è proprio quella di essere estremamente presenti a sé stessi per avere la possibilità di suonare solo quando la musica lo richiede; è un concetto molto soggettivo ma non mi vengono in mente altre parole.
Come suonerebbe l’Orchestra DOOOM se togliessimo una O?
Francesco Cigana (batteria, percussioni, oggetti): È sulla presenza di quella lettera in più o in meno che si gioca la partita e per partita intendo sia dal punto di vista sonoro che da quello di esistenza/resistenza del gruppo in sé. In entrambi i casi trovo che un equilibrio tra la certezza del suonare e agire come se “non ci fosse un domani” e della sana autoironia (ricordo che DOOOM è anche un acronimo per De-licius Orchestra Of Original Music, dove De-licius può venir letto come “del liscio”) sia l’unico modo per gruppi di questo tipo di andare avanti. Se si osserva poi che gruppi di questo tipo sono estremamente rari, è ancora più facile intuire la fragilità del progetto e al tempo stesso la sua forza e cocciuta resistenza.
Togliere una O vorrebbe dire abbandonarsi ad un destino senza speranza; non aggiungerla sarebbe rinchiudersi ed isolarsi nella torre d’avorio della nicchia musicale in cui si lavora.
Nina Baietta: Non lo possiamo sapere. Una “o” di troppo ha dirottato tutto il resto fino a qui. Questo è uno dei meccanismi che preferisco dell’improvvisazione: come un errore, un elemento estraneo, volontario o involontario, possano cambiare le sorti di un pezzo, un disco, un gruppo.
Francesco Salmaso: Durante i concerti o la recente registrazione abbiamo avuto dei momenti in cui ci sono state ambientazioni molto tragiche; quindi, mi viene da dire che c’è stato già un assaggio della DOOOM senza una O. Forse il rischio sarebbe che inizieremmo a suonare come se stesse arrivando l’imminente fine del mondo. Interessante ma probabilmente un po’ pesante.
Marco Valerio: Ricadrebbe in un genere musicale già definito, quindi morirebbe subito!
Andrea Davì: Saremmo su MTV.
Agnese Amico: Malissimo, senza la ‘o’ dello stupore.
L’estetica giocosa e surreale dei titoli: eredità zappiana o esercizio di sopravvivenza artistica?
Andrea Zerbetto: La DOOOM Orchestra già dal titolo presenta una vena umoristica e ironica; non è dunque un caso che questo si rifletta anche nella scelta dei titoli – con riferimenti alla “lore” del gruppo – ma anche descrittivi ed evocativi delle atmosfere suscitate dai brani che compongono l’album.
Francesco Cigana: È una mia malformazione poetica di derivazione ermetica/esoterica che da un lato ben si accosta proprio all’estetica zappiana (dove si intuisce che dietro il nome di un brano c’è un momento, un episodio e un motivo) ma che forse si discosta un po’ per i diversi piani di lettura e interpretazione che ogni nome deve avere per me per essere valido, come per il nome dell’ensemble. Non sopravvivenza quindi ma esistenza, seguendo forse un miraggio filosofico che probabilmente non mi posso permettere ma che ugualmente prendo in prestito con onestà e forse un pizzico di vanità, ben conscio del rischio dell’incomprensione.
Ho sempre amato l’opportunità di poter approfondire e di dare modo di soddisfare una curiosità: fare e farsi domande è l’unico modo per conoscere qualcosa in fondo, ma ahimè spesso le domande non trovano nemmeno motivo d’essere nella piatta e obbligatoriamente monolitica realtà che ci viene propinata. Preferisco essere non capito che non poter soddisfare una curiosità.
Andrea Davì: Non sono farina del mio sacco. Ma sono perfetti.
Agnese Amico: La sopravvivenza è riuscire a fare e i titoli sono una piacevolezza di una cosa incredibilmente compiuta – un album – di un progetto complesso. Sono titoli che spesso rimandano a giochi di parole scherzosi creati nel tempo durante le prove dell’ensemble. “Sicilian Magia”, ad esempio, si rifà ad una melodia trascritta dalle bande siciliane, eseguita durante le processioni religiose che spesso incrociano magie popolari e riti cristiani. “Take The SteroidZ” si prende gioco della flemma mattiniera spesso discutibile del nostro meraviglioso pianista.
DOOOM, se fosse un continente da esplorare.
Francesca Baldo: Il continente DOOOM è dominato da lunghe distese incontaminate e selvagge, deserti rossi e foreste tropicali abitate da animali di ogni dimensione. Il clima varia tra le stagioni monsoniche e quelle aride e torride. A volte passa il vento “Milani” (cognome del violoncellista – da cui il titolo di un nostro frequente esercizio, “Waiting for Milani”, che consiste in una serie di eventi sonori, intervallati da silenzi). Il vento Milani è mite e proviene da ovest, un abbraccio, una brezza portatrice di primavera.
Sirio Nagro (chitarra elettrica, oggetti): DOOOM potrebbe ricordare la varietà culturale europea: musicisti provenienti da differenti realtà e percorsi, dalla classica al jazz tradizionale e free, dal rock psichedelico tribale al metal, folk, elettronica e sperimentazione. Sonorità, approcci e stili che si intersecano, una multipla conversazione tra le fazioni che trova i suoi punti in accordo e che alle volte invece si scontra non perdendo di vista la risoluzione dei conflitti.
Costante è interlocuzione autoregolamentata dove l’ascolto diviene fulcro imprescindibile per l’interscambio e l’interconnessione della molteplicità, strumento di aggregazione attraverso la quale il divenire prende forme via via sempre differenti. Insomma, continente che è crogiolo alchemico dei bagagli musicali dei singoli, sorretto da principi e direttive emanate dal nucleo edificante del progetto, ovvero il suo ideatore che con saggezza, pazienza e volontà tiene strette le redini di questa complessa società, mediando e indirizzando l’avvenire.
Andrea Davì: Non servirebbe il passaporto.
Jacopo Giacomoni: Sarebbe il continente più vicino e più banale e quotidiano che ci sia. Perché non sono la landa inesplorata, l’oceano senza confini, la foresta ignota o il paesaggio esotico i luoghi da indagare. Uno strumento e il suo suono sono sempre con te. È il viaggio dentro questa permanenza che si deve intraprendere ogni volta che si improvvisa di nuovo. È dentro i propri tic, i propri stilemi, nelle frasi rassicuranti, nelle trovate già consolidate che ci si inoltra quando si suona insieme. Il mare da solcare è dentro di noi, “the sea lies within”.
Agnese Amico: Un incrocio tra avventure in Amazzonia, traffico fermo in autostrada sotto il sole e un lago fresco.
Francesco Salmaso: L’America del Sud. Sono sempre stato affascinato dal realismo magico di quel continente e penso che spesso la DOOOM si faccio portatrice di quel mondo. A volte, durante le prove ci sono stati degli atti di psicomagia.
Ogni singola traccia di questo disco sembra essere a sua volta un album in miniatura.
Enrico Milani (violoncello): In effetti lo è! Ogni volta che comincia un’improvvisazione si parte da zero e si ritorna a zero, il che significa che in un pezzo ci dev’essere tutto quello che può essere la musica: forma, espressione, figuratività, qualsiasi cosa. Ma la giustificazione del pezzo, il senso, quello che il pezzo ha da dire, può stare solo nell’integralità chiusa del pezzo stesso, perché ciò che è stato prima è già chiuso, e ciò che verrà non si sa.
Nina Baietta: L’attenzione alla forma, elemento fondamentale per questo gruppo, porta a costruire collettivamente piccoli universi sonori, sempre mantenendo l’attenzione all’impianto generale del concerto o della registrazione. Facciamo delle matriosche formali.
Francesco Salmaso: Credo che sia una delle caratteristiche più belle di questo collettivo. Riuscire a condensare un album in qualche minuto.
Francesco Cigana: Fortunatamente è proprio così e il disco è l’universo in cui questi mondi convivono e dialogano. Qualcuno potrebbe dire “il mare” in cui questi mondi vivono e avrebbe facilmente ragione, visto il titolo del disco.
Credo di avere un atteggiamento di derivazione plastica (intesa come pratica artistica) rispetto a cosa rappresenti un brano di musica improvvisata, laddove la scultura è appunto l’arte di dare una forma. Il medium scultoreo in questo caso è ovviamente più simile al marmo, dove non si può aggiungere e ripensare un pezzo tolto. Ogni brano va quindi scolpito fino a dargli una sua autonomia artistica e lì il brano/scultura inizia ad esistere, perché sorretto da una struttura funzionale, comunica perché il materiale o i materiali sono utilizzati con un obiettivo comune ed infine prende vita perché è compiuto.
Francesca Baldo: Ogni singola traccia di questo album è un’abitante del continente DOOOM.
Sirio Nagro: Ogni singola traccia sembra un album in miniatura. Quando si tratta di musica sperimentale ed esplorativa è facile che il risultato ottenuto in una traccia contenga la stessa varietà che si può riscontrare in più brani di un qualsivoglia album.
Quando la musica è fatta sull’istante il potenziale e le variabili sono pressoché infinite: in qualsiasi momento può accadere l’imprevisto, il prevalere dell’irrazionale, dell’istinto. Quel momento in cui l’ascolto è alto e l’immersione è profonda può accadere che il flusso prenda direzioni inaspettate, scaturite da un singolo musicista che ha l’immenso potere di distruggere il vecchio, portare nuove idee o arricchire ciò che già era in atto; un singolo contro tutti o una nuova idea che viene accolta e seguita, una nuova voce che mostra nuove direzioni e che si fa da coraggiosa esploratrice dell’ignoto.
Ecco, credo sia per questo che alle volte all’interno di una singola traccia si possa trovare tanto materiale, suoni, timbri, idee, atmosfere e narrazioni.
Un caleidoscopio eclettico incessante e mutevole così come la natura delle cose.
Andrea Davì: Un pezzo musicale può essere come una vita intera.
Jacopo Giacomoni: Ogni silenzio da cui si parte per improvvisare con la DOOOM è il primo silenzio. Soprattutto in una sessione di registrazione così lunga e totalizzante è difficile avere percezione di un prima e di un dopo. Potenzialmente ogni percorso che si intraprende dopo il silenzio può essere il disco, ma soprattutto può essere lunghissimo, durare mezz’ora, o magari esaurirsi in un solo di pochi minuti.
Questa indeterminatezza produce microcosmi. Le improvvisazioni diventano universi dotati di una coerenza interna, che possono collassare su loro stessi, perdersi nell’impalpabilità, oppure, nel migliore dei casi, farsi album in miniature, che non vuol dire altro che diventare una dimensione a sé.
Un tempo in cui gli strumenti parlano lo stesso linguaggio, in cui ritmo e rumore interni non hanno bisogno di mostrarsi perché la loro presenza non richiede giustificazioni.
Andrea Zerbetto: Questo tipo di musica lavora su un piano più astratto, più aperto e meno definito secondo schemi generalmente accettati nell’ambito di ritmo, armonia, melodia, et cetera. Il materiale musicale viene infatti privato degli elementi caratteristici più convenzionali (ad esempio, la consonanza nel caso di accordi, cadenze di dominante-tonica e dunque tensione-rilascio) per individuare gli elementi chiave che possano definire una singola idea musicale.
Su decostruzione e successiva ricostruzione si basa questa modalità di fare musica. All’ascolto, infatti, si potrà notare una forte coerenza dell’ensemble musicale, derivante da questa attenzione per la creazione di idee musicali forti (ovvero con caratteristiche chiare e ben definite) che possano dialogare con quelle proposte dagli altri musicisti. Il focus su questo elemento porta con sé, a un livello più ampio, anche l’attenzione a mantenere una forte coerenza strutturale, con episodi musicali ben definiti che possano svilupparsi organicamente.
La conseguenza ultima è dunque la creazione di “paesaggi sonori” ben caratterizzati e definiti, in un certo senso autosufficienti, che possono richiamare l’idea di mini-brani all’interno di una più ampia improvvisazione.
Agnese Amico: Ogni traccia è uno sforzo, anche solo tra suonare e non suonare.
Marco Valerio: Assolutamente vero, esattamente come il macroscopico si rispecchia sempre nel microscopico, spesso le nostre “composizioni istantanee” si sviluppano in un susseguirsi di idee musicali collegate da un filo, da una storia, come tanti “brani nel brano” che si interlacciano e si sormontano dialogando fra loro.
Per Our Sea Lies Within mi piacerebbe parlare di “post jazz mutante”.
Francesco Salmaso: Citando la risposta di Mingus alla domanda “What is jazz music?” “I don’t know and I don’t care” toglierei “jazz” e lascerei solo “musica mutante” che credo sia davvero azzeccata.
Francesco Cigana: “The only thing worse than being talked about is not being talked about”. Per gli sforzi fatti finora e per quelli futuri, per la difficoltà superate, l’impegno che io e i miei compagni di viaggio ci mettiamo in questo progetto e per la fase in cui la DOOOM Orchestra si trova al momento credo che la cosa più importante sia semplicemente spargere la voce.
Non mi curo troppo di come si possa classificare, non è un processo mentale che attivo quando suoniamo insieme. Ma ti sono di sicuro grato perché ci aiuti a dare voce a questo disco e se questo accadrà nel nome del “post jazz mutante”, beh spero che questa creatura radioattiva vada il più lontano possibile, sconfinando informemente territori e generi senza fare prigionieri, disturbando più orecchie possibili (e ridendosela un po’).
Enrico Milani: Qualsiasi cosa sia il jazz è qualcosa che ognuno di noi si porta dietro, probabilmente sempre a fianco ad altro. In un’epoca in cui i generi sono fluidi, equamente e universalmente fruibili, non avrebbe nessun senso non essere “post”, non essere “mutanti”. Cioè, non avrebbe nessun senso accanirsi a definirsi in un’identità stabile di genere.
Le storie della musica ci hanno ampiamente dimostrato che le forme nascono meticce, che gli stili si ibridano. Se risulta che in qualche modo lo abbiamo fatto anche noi, ciò non può che lusingarci.
Andrea Davì: Io non ci sento alcun elemento di jazz. Mutazione ne sento parecchia.
Marco Valerio: “Post Jazz Mutante” mi piace anche se “Jazz” identifica un modo di improvvisare molto diverso dal nostro. “Mutante” descrive meglio il Golem musicale a cui dà vita la DOOOM Orchestra.