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DOOL, Summerland

C’era da scommettere sui Dool già ai tempi del debutto Here Now, There Then, un disco che aveva saputo incuriosirci e creato generose aspettative per il suo successore. Giustificata, quindi, la curiosità nel trovarci finalmente tra le mani Summerland, termine di origini pagane per indicare (parole loro) il Paradiso, il Nirvana o comunque vogliate chiamarlo, un lavoro che rispecchia la coesione interna e la strada fatta dalla band lungo questi anni, soprattutto concepito e realizzato ex-novo e non, come nel caso del predecessore, da spunti che Ryanne Van Dorst aveva portato in dote alla band appena formata. Così, il secondo capitolo nella storia dei Dool si presenta all’ascoltatore come la fotografia di quello che è il potenziale della band e dell’intuizione di creare un mix di dark-rock, psichedelia e metal, il tutto riletto e amalgamato alla luce di una personalità non comune, merito anche di una voce espressiva e capace di risultare a seconda dei casi sognante o incisiva, delicata o prepotente quando si tratta di alzare il tiro e seguire il crescendo delle chitarre. Summerland è di sicuro un lavoro meno immediato del debutto, gioca meno sul fattore sorpresa e più sulla coesione di una scrittura dilatata e spalmata lungo l’intera durata del disco (la versione in vinile ha la forma di un doppio album), il che non vuol significare che si siano perse per strada quelle melodie e quei cori capaci di catturare immediatamente l’attenzione, ma che queste sono state inserite all’interno di un prodotto organico e ricco di sfumature, di un percorso di ampio respiro che non si gioca i suoi colpi migliori in velocità ma cresce ascolto dopo ascolto e vuole affermarsi come prova matura, come espressione della crescita di una band solida e non di una “one hit wonder”. Colpiscono anche gli inserti di musica medio-orientale, quel mood straniante che si inserisce nelle strutture rock per aggiungere un tocco onirico al tutto. Per arricchire ulteriormente la propria dotazione, i Dool hanno chiamato a sé tre ospiti di riguardo, Per Wiberg (Opeth, Spiritual Beggars e Candlemass) con il suo Hammond, la cantante Farida Lemouchi (Devil’s Blood, Molassess) e Okoi Jones (Bölzer), così da completare la trama di un lavoro che colpisce il bersaglio e conferma la validità di un nome che ha saputo catalizzare l’attenzione e imporsi con sempre maggior forza all’interno di un panorama spesso in carenza di originalità e nuovi stimoli. Certo, non si gioca con ingredienti inusitati o si stravolgono chissà quali dogmi, soprattutto si parla comunque di un album dalla forte componente rock e dall’umore crepuscolare già caro a molti e da molto tempo, eppure riesce nel non facile compito di rendersi immediatamente riconoscibile nella sua particolare distribuzione degli ingredienti. Per quanto ci riguarda, scommessa vinta.