Don e Moki Cherry raccontati in Organic Music Stories (Blank Forms, 2021)
Qualche tempo fa mi è capitato di sentire l’audio di una intervista a Don Cherry e ricordo come dicesse cose molto interessanti sul modo di lavorare con le frasi e la costruzione melodica nella band di Ornette Coleman. Ho capito così come fosse uno con molte cose importanti da dire, mentre io conoscevo soprattutto la sua musica e le sgargianti copertine dei dischi.
Ora Blank Forms (organizzazione no-profit con base a New York che supporta gli artisti poco rappresentati) ci regala un bellissimo documento in inglese di quasi 500 pagine su Don e Moki Cherry, il cui proficuo sodalizio ha portato numerosi e preziosi frutti, non solo artistici, come vedremo. Per prima cosa contiene tantissime immagini, sia fotografie che disegni, e vario materiale creato per seminari o altro, stampate con buona qualità pur mantenendo un ottimo prezzo.
In Organic Music Societies troviamo interviste, tra cui alcune inedite, ma anche contributi di famigliari e collaboratori. Ritengo sia un insieme di notizie e approfondimenti molto utile e importante, non le solite note di colore sulla vita strampalata di personalità creative, di certo perché la maggior parte dei contenuti vengono dalle stesse parole dei protagonisti.
Il lavoro del polistrumentista nato a Oklahoma City e cresciuto a Los Angeles si presenta prima di tutto tramite i dischi che ha pubblicato: hanno dei titoli fantastici, soprattutto nel periodo preso in esame in questo libro. Eternal Now, Hear & Now, Relativity Suite e altri ormai diventati iconici, sono spesso vere suggestioni utili ad aprire porte mentali, ad immaginare, inoltre quando si ascolta la musica non risultano enfatici ma adatti a rappresentarla e a darne una dimensione più ampia, a differenza di tanta musica più propagandata che di sostanza. La loro arte (così viene descritta nella quarta di copertina del libro) era un mix di arte comunitaria, attivismo sociale e ambientale, educazione dei bambini (pedagogia) ed il termine pan-etnico “Organic Music”.
Don ha suonato con i grandi del mainstream e del free. All’occorrenza tecnico, sempre creativo e con una “memoria da elefante”. Raccontano infatti quelli che suonavano con lui che poteva imparare qualsiasi melodia al volo e pretendeva tanto da loro, li trattava come se avessero una memoria grande come la sua. Ha esplorato tanti luoghi musicali: dal periodo con Ornette al trio precursore di un certo approccio “world music” Codona (si racconta che fosse spesso intento ad ascoltare una radio onde corte, cercava forse di captare le frequenze universali insieme a quelle di luoghi remoti), il duo magico con Ed Blackwell, ha anche suonato con Sonny Rollins in un mitico quartetto con Henry Grimes al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria. Proprio durante un tour con Grimes e Higgins, durante una tappa in Svezia, ha conosciuto la futura moglie.
Il periodo preso qui in esame è quello in cui la coppia ha vissuto e lavorato insieme, nel corso del quale Don è passato dall’esibirsi nei club a una più ampia esperienza estetica di intimità: in questo percorso la sua compagna ha avuto un ruolo centrale. I due organizzavano concerti in loft e case private, invitando un pubblico più ampio: una situazione più rilassata, coi bambini in giro, che faceva percepire gli spettacoli come più accoglienti. Nel mettere in discussione il ruolo passivo dello spettatore e incorporando spazi domestici, oggetti e simboli nel loro lavoro, Don e Moki partecipavano alla rivoluzione degli anni Sessanta. La loro arte era strutturata dalla pedagogia sperimentale e mirava ad esporre i partecipanti a un mix di culture.
Il racconto più importante è quello della parabola di un periodo prolifico sotto molti punti di vista, che li porta in pochi anni dal vagabondare costante alla creazione di una scuola-casa nel sud della Svezia: come dicevo prima, Moki ha molti meriti nella riuscita di questi progetti ambiziosi che coinvolgono tutti gli aspetti delle loro esistenze e di chi è loro prossimo. I confini tra vita, performance e arte totale, come vedremo, si assottigliano fino a scomparire. Nel 1970 comprano un vecchio edificio scolastico a Tågarp, un’area rurale, per farne il centro delle loro attività e per trovare un nuovo equilibrio dopo tanti viaggi e frenesie. Importante per dare una forma compiuta a tutti questi interessi e ricerche sarà l’anno seguente, con la partecipazione a “Utopias and Visions 1871-1981”, momento chiave per la coppia, capace di creare nella circostanza, per la prima volta, un contesto immersivo all’interno di un’istituzione artistica. Arazzi appesi alle strutture, una cupola geodetica e un mandala dipinto sul pavimento, con Don che suona e si esibisce con i suoi collaboratori giorno e notte.
La casa era funzionale e c’era uno studio, con tanto di macchina da cucire e pianoforte messi in mostra. Nella notte Moki ovviamente cucinava per tutti, nello stesso spazio in cui poi dormiva tutta la famiglia, mentre i bambini giocavano con la collezione del museo. Il pubblico a volte era chiamato a partecipare. Il 1972 è un anno importante: partecipano infatti ad un festival in Francia a Chateauvallon come Organic Music Theatre, presentando un evento coreografico in apparenza caotico, con cui eliminano la divisione tra artista e spettatori tramite una combinazione di suono e immagine. Uno spettacolo poliedrico, una cerimonia più che un concerto. Nello stesso anno la copertina di Organic Music Society (disco bellissimo) a cui fa eco il titolo di questa pubblicazione è un po’ la summa di questo periodo, espresso in simboli e riferimenti alla propria vita e alla dimensione eterna e invisibile.
Parlando più strettamente di musica si potrebbe aprire qui una discussione ampia sul rapporto che aveva Mr. Cherry con la melodia: amava le melodie invincibili, quelle su cui pochissimi sanno improvvisare bene e dalle quali è difficile allontanarsi troppo, talmente sono potenti i centri gravitazionali che creano. Guarda caso ne sono campioni alcuni membri del suo personale pantheon come Monk e Ornette, inoltre si trovano con una certa frequenza nei brani delle musiche tradizionali. Ogni scala è uno strumento completo in sé stesso, racconta in una delle interviste qui trascritte. L’approccio bambinesco, quella “infant happiness” che spesso evoca sono centrali nel suo modo di essere, è come una dedizione all’assoluto per lui. La ricerca di quella sensazione provata, così racconta, quando la madre gli diede una tromba la prima volta, una sensazione che dice di ricordare benissimo dopo tutta la musica che ha imparato in seguito. La semplicità: altra sua parola d’ordine, aveva molto rispetto per la semplicità e sapeva quanto fosse difficile raggiungerla. Nella sua visione la musica è per tutti, è quella cosa che ci permette di accordarci con noi stessi, con la nostra vita, con le emozioni e quello in cui crediamo. Ognuno dovrebbe essere interessato a portare fuori la musica contenuta nel proprio corpo, è questa la sua visione organica.
Una bella sorpresa sono i materiali legati ai suoi metodi di insegnamento (a tratti descritti con molto dettaglio) nei vari workshop tenuti negli anni, il lavoro per un ente educativo svedese e la residenza al Dartmouth College, dove i suoi corsi erano sempre pieni, un’esperienza sfociata in esperimento artistico totale con gli studenti che potevano accedere alla casa privata dei Cherry: confine tra vita privata e performance artistica sempre più indefinito, questa fu una delle principali occasioni per creare qualcosa di più ampio e per approfondire le ricerche in atto. Le basi di un sano approccio all’insegnamento per Mr. Cherry sono contraddire quello che ci hanno insegnato, la libertà di esprimere sé stessi, ci parla di naturalità dei sensi umani, la sensibilità umana come elemento fondante. Vuole aprire questi “altri suoni” che sono nei corpi dei suoi studenti e di tutti noi, bisogna essere abbastanza sensibili per sviluppare la nostra pienezza, dobbiamo secondo lui suonare per uno spirito che è interessato solo in quella immediatezza. Porta anche grandi suggestioni con cui organizzare i suoni, parla di forma come respiro intero e completo.
Arriviamo ora all’arte e alle visioni di Moki. Proveniva praticamente dall’artico e, come vedremo, avrebbe compiuto un percorso che l’avrebbe portata ad aprirsi al mondo, ai colori e alle sue riconoscibili immagini psichedeliche. I suoi diari sono molto interessanti e ispirati, contengono elementi personali e privati ma anche visioni cosmiche e sogni, le difficoltà personali, famigliari e artistiche, la sua consapevole incapacità a penetrare nel mondo dell’arte come business. In questo volume troviamo anche una biografia che ha realizzato con i suoi strumenti artistici, un disegno colorato e graficamente articolato di un corpo femminile in cui inserisce le varie esperienze formative e lavorative, tra cui (giustamente) la nascita dei figli in mezzo a tour e alle mostre o installazioni realizzate. Moki è una donna completa, è tutto allo stesso tempo, madre, artista, viaggiatrice, fa-da-mangiare-a-tutto-il-mondo, gestisce casa e orto organizzandoli meticolosamente in base ai viaggi in programma. Nel periodo in cui lei e Don erano sempre in tour era sempre al lavoro su scenografie, vestiti, oltre a cucinare e lavorare l’orto e il giardino perché ce ne fosse ancora uno al loro ritorno. Portava avanti anche gli obblighi domestici, come era tipico nelle relazioni dell’epoca, ma cercando con tenacia di incorporarli nella sua pratica artistica.
Suonava anche la tampura nei concerti, ma più di tutto attraverso il suo lavoro nelle arti visive creò l’ambiente, il contesto in cui si riceveva la musica, uno spazio casalingo di spiritualità, giocosità e rinnovamento. Oltre ai diari troviamo le sue poesie che sono di ottima qualità, esposte con vesti da mixed-media. Tra gli abbondanti disegni appaiono alcuni mondi grafici ricchi di elementi e molto fascino. Assolutamente da vedere quelli per un seminario dedicato ai bambini realizzati insieme a Christer Bothén, che amplificano l’evocatività degli strumenti musicali provenienti da vari luoghi del mondo. La sua arte visiva è originale e ha molti punti di contatto con l’approccio alla musica del suo compagno di vita. Dall’estremo nord monocromo compie una traiettoria verso sud, verso un’esplosione di colori e meticciamenti di culture, si apre al mondo intero usando lo stesso criterio multiculturale di Don. Ritroviamo infatti lo stile “childlike”, una estetica naif-pop. Creava arredamenti, decorava le case, è difficile trovare qualcosa che toccato da lei non diventasse arte. La simbologia di Moki è una combinazione di varie tradizioni spirituali, soprattutto da Buddismo Induismo, con citazioni da mantra buddisti e scale musicali espresse con le sillabe indiane. Spiega con grande lucidità che non può dare un titolo ai suoi quadri perché molto raramente simboleggiano un momento storico, al contrario sono dedicati a tutte le forze invisibili che governano l’uomo e l’universo. Infatti continua dicendo che le possibilità di quello che può accadere e quello che sta accadendo nell’universo sono fuori dalla nostra portata. L’uomo è frustrato nel suo desiderio di governare la natura ed essendo assorbito in questo sforzo, dimentica di vedere e realizzare il suo paradiso. Tra i motti di Moki sono rivelatori questi due: “Wherever we are is home” e “The stage is home and home is a stage”, il primo fondamentale per dare senso al loro vagabondare, il secondo estende l’approccio alla pratica artistica permettendo la fusione già citata tra vita e performance, un’arte totale.