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Domiziano Maselli: Lazzaro e altri miti

Domiziano Maselli è al secondo full length con Lazzaro (il primo è Ashes), un disco scurissimo, allo stesso tempo contemporaneo e ancestrale, adatto alle orecchie di chi ascolta Emptyset, Fis (il disco con Rob Thorne) e altri artisti di quel giro che hanno provato a giocare la carta della potenza e della profondità, ma soprattutto a un certo punto hanno cercato di far convivere digitale e pelli, legni, metalli, voci, tradizioni lontane quanto il futuro che spesso evocano. Lazzaro, uscito quest’anno per Opal Tapes, è per Domiziano Maselli un passo in avanti – fatto salvo il quadro di riferimento – nella ricerca di una voce distinguibile, merito anche del coraggio di non strutturare troppo le tracce, seguendo forse l’istinto e lasciando che queste crescano senza paura di perderne il controllo. Ascoltate il disco, ditemi se non ho ragione e se vi piace, più sotto avete le quattro chiacchiere che ho fatto con lui, dato che c’era anche tutto un discorso sulla componente visuale del suo lavoro: da solo non sarei mai riuscito a farlo.

“Domiziano Maselli is a visual and sound artist based in Milan”. Vuol dire che hai iniziato prima con le immagini e poi con la musica? Hai “un film” in mente quando provi a mettere insieme un pezzo?

Domiziano Maselli: Ho studiato comunicazione visiva, scenografia, pittura; di base sono un visivo. Mi sono avvicinato al suono più tardi, ma col tempo ho iniziato a considerare immagine e suono una ricerca parallela. Dunque dipende dal tipo di suggestione che mi trascina, può essere l’una che suggerisce l’altra o viceversa, mi capita anche di avere un “film” in mente come dici tu, o addirittura di trovare spunti nei luoghi in cui trovo. C’è anche una vena progettuale nei miei lavori, che deriva dagli studi intrapresi, mi capita di stabilire già in partenza ciò che intendo realizzare, lasciando tuttavia spazio a scoperte inaspettate e casuali nel processo creativo. Il caso è forse uno dei mezzi espressivi più importanti nel mio lavoro.

Nei tuoi dischi convivono “acustico” (nel senso di non elettrico) e, credo, digitale. Da dove sei partito? Perché ti piace questa commistione? Vengono prima le idee o i mezzi per realizzarle?

Mi è sempre interessata questa commistione, trovo i suoni degli strumenti acustici naturali ed evocativi, li prediligo.
Il digitale apre a possibilità creative illimitate, è un mezzo per mettere mano al suono, modificarlo, deformarlo.
Quando ho iniziato a comporre le prime cose ascoltavo molto Klaus Schulze, Lisa Gerrard, Popol Vuh, Autechre, Tim Hecker, le mie suggestioni derivano in parte dai loro ascolti.
Riguardo a cosa viene prima, se le idee o i mezzi, credo che le idee suggeriscano i mezzi da utilizzare, e che i mezzi restituiscano idee da elaborare, è un vicendevole scambio.

Vorrei sapere se per te hanno senso i paragoni – sicuramente lusinghieri – con Haxan Cloak e gli Emptyset. Secondo me non è male che qualcuno abbia notato che questo mix acustico-digitale si trovi in tanti dischi usciti per Subtext.

Non ho mai ascoltato molto Haxan Cloak, gli Emptyset invece sono un mio riferimento. Trovo che Ginzburg e Purgas scavino a fondo come pochi, sono precisi. Il paragone è esatto, ho colto molto dal loro lavoro, sono dei maestri. Ritengo che Subtext sia un riferimento per ogni compositore che sia interessato a sperimentare con un suono immersivo, tattile, per trovare nuove strutture, nuove forme compositive.

Come nasce il rapporto con Opal Tapes?

Con la pubblicazione di Ashes, il mio disco di debutto. Sono arrivato ad Opal Tapes come fanno in molti, quando si cerca un’etichetta che ti corrisponda. Ho inviato una mail di presentazione una prima volta, senza ricevere risposta alcuna; sei mesi dopo l’ho inviata nuovamente e hanno voluto pubblicare il mio disco.

In che modo Alessio Iachelini e Lorenzo Castelnuovo hanno contribuito a Lazzaro?

Alessio è violoncellista e lavora con me fin dal primo album. Gli chiesi di aiutarmi a costruire un brano per violoncello e contrabbasso, diviso in due parti. Nella prima parte mi interessava arrivare a un climax, caricando gli archi sempre più di un’enfasi caotica e tragica. Nella seconda lasciare spazio alla reinterpretazione del canto armeno ‘Havun havun’, così ho ottenuto le basi per il brano “Gethsemane”.
Diversamente “A Desolation Chant” nasce da un’improvvisazione con Lorenzo (tromba) e contrabbasso, che ho arricchito successivamente con elaborazioni elettroniche e sound design. Non sono professionisti del loro strumento e neanch’io (contrabbasso). È una scelta personale lavorare con chi non sa domare del tutto il proprio strumento. Vi trovo una certa freschezza e immediatezza, è il fascino dell’imperfezione, del suono fragile, ma serve creare l’ambiente adatto per poterlo fare.

Perché Lazzaro? La mia curiosità è sul come un musicista decide di tirare in ballo qualcosa di così ingombrante.

Il disco è nato in un momento particolare della mia vita, ho provato ad esprimere un disagio, cercando di esorcizzarlo. L’immagine biblica di Lazzaro mi ha dato un’idea piuttosto precisa sul da farsi, e lavorando da sempre sulla libera associazione di idee, ho trovato che fosse l’immagine adatta. Trovo che rivolgersi al passato, quando non si hanno più redini, sia un modo per ritrovarsi.

Per chiudere il cerchio iniziato con la prima domanda, tornando al rapporto musica-immagini, mi racconti come nasce il video di “The Burrow”, che tra l’altro abbiamo lanciato noi a The New Noise?

Il video è nato successivamente al brano, le immagini le ho dipinte su carta velina nera e animate in stop-motion con riprese macro. È nato facendolo. Apparizioni ancestrali, sorta di pitture rupestri e immagini raccapriccianti, come il Saturno di Goya deformato, descrivono una situazione kafkiana, un luogo di castrazione, dove non è possibile fare assolutamente nulla, dove si arranca continuamente, scavando nei recessi del proprio essere, nel tentativo di evadere. È il brano più fisico del disco, nel quale immergersi dal vivo.

Qui, invece, il video più recente per “A Desolation Chant”, pubblicato il 7 agosto:

Spiegami per favore cos’è Eremo, quanti siete e che cosa volete fare.

Eremo è lo spazio nel quale io e il mio amico Julian conserviamo i nostri lavori, ai quali abbiamo dedicato il tempo necessario. Cerchiamo una visione non produttiva dell’arte, ma realizzativa. Dove le opere giungono al massimo della propria potenzialità espressiva, grazie alla dedizione dei propri autori. C’è una poetica condivisa tra noi, e in futuro ci piacerebbe diventare una realtà editoriale più concreta, cerchiamo persone che condividano la nostra stessa visione.