DiscoVery #2: Stelvio Cipriani Cult Soundtracks
Diplomato in pianoforte e composizione musicale, Stelvio Cipriani è stato autore di centinaia di colonne sonore per film di genere. Si trattava di prodotti forse un po’ naif, se non “artigianali”, che ricevettero critiche poco generose, ma che trionfarono al botteghino e che oggi sono diventati di culto. Western, thriller, poliziotteschi, horror ed erotici. Eppure è stata una celebre pellicola strappalacrime a segnare la sua lunga carriera, conclusasi mesi fa, in uno strano silenzio mediatico.
STELVIO CIPRIANI, Anonimo Veneziano (2014, Music On Vinyl)
Una meditazione sulla morte e sulla vita. L’iconico sfondo di una Venezia fosca e decadente. Due personaggi, Enrico (Tony Musante) e Valeria (Florinda Bolkan), al centro di una sceneggiatura ai limiti del “teatrale” elaborata da Giuseppe Berto. Una pellicola strappalacrime sulla scia della coeva “Love Story” (1970), raccolta a stelle e strisce dei topoi del genere melodrammatico. “Anonimo Veneziano” (1970), debutto dietro alla cinepresa di Enrico Maria Salerno, registrò meno incassi al botteghino rispetto al cult movie di Arthur Hiller, ma riuscì poi a ritagliarsi uno spazio nella memoria del pubblico, complici rimandi all’attualità di allora, con la legge sul divorzio destinata a entrare in vigore pochi mesi dopo la sua uscita, le buone prove di attori sulla cresta dell’onda, un set ideale e, soprattutto, le struggenti musiche di Stelvio Cipriani, premiate con il Nastro d’Argento nel 1971, che ricoprivano e ricoprono un ruolo cruciale nello svolgimento dell’azione tra calli e campielli.
Enrico è un oboista del Gran Teatro La Fenice. Depresso, povero. Il suo sogno era diventare direttore d’orchestra. Una volta appreso di essere ammalato di tumore, decide di invitare a Venezia sua moglie, dalla quale è separato da anni. Valeria acconsente nonostante tema che possa rivelarsi sia un tentativo di riconciliazione, sia un ricatto nei confronti del suo nuovo compagno (all’epoca era ancora impossibile sciogliere un matrimonio). I due girovagano a lungo, fino alla sofferta rivelazione di Enrico che, compresi gli immutati sentimenti di Valeria, le rivela la sua condizione. Il desiderio di morire in modo dignitoso è soddisfatto: la donna si concede un’ultima volta. Il concerto per oboe di Alessandro Marcello, compositore dilettante di fine Seicento, avrebbe dovuto concludere il loro incontro, ma la commozione quasi impedisce a Enrico di suonare, mentre Valeria si allontana in lacrime da una chiesa trasformata in studio di registrazione.
Lo score “Anonimo Veneziano (From The Original Movie Soundtrack)” (2014), una ristampa Music On Vinyl, è fondato su, forse, uno dei temi più famosi dell’intero cinema italiano, celebrato a ogni latitudine e longitudine, pur se ideato da Stelvio Cipriani (in sostituzione di Giorgio Gaslini) nell’arco di una mattinata, dopo una parziale visione della pellicola. La successione di note tra pianoforte, violino e flauto di “Anonimo Veneziano” è di rara bellezza e, come da tradizione, il compositore la declina in versioni alternative, offrendone un paio dal più ampio minutaggio (“Come Una Volta” e “Broccati Veneziani”), aggiungendo elementi ritmici ad hoc o ricorrendo all’ausilio di batteria e chitarra, come in “Maquillage”, “Spruzzi D’Acqua”, “Un Tempo Bello”, in modo da affievolire quel mood a metà strada tra il malinconico e il romantico proprio, invece, di “Amore Con Pietà, “Ricordi Intorno A Noi”, “Vicino A Te” e “Vento Caldo”. “Laguna Incantata” è un’extra di gran classe.
STELVIO CIPRIANI, Ecologia Del Delitto (A Bay Of Blood) (2017, Cinedelic Records)
Quando l’inventore dell’horror all’italiana si diede al giallo-thriller. Nel corso della sua lunga carriera, Mario Bava non ha mai interrotto il suo itinerario per il cinema della paura. “Ecologia Del Delitto” (1971), in riferimento al meccanismo di difesa che la natura mette in atto ai danni degli speculatori che intendono distruggerla, è il film che scompone il “modello” suggerito da Dario Argento, raccontando una favola rosso sangue che influenzerà il futuro cinema a stelle strisce, a partire dal celebre “Venerdì 13” (1981) diretto da Steve Miner. Una vicenda intricata costruita su colpi di scena in serie, particolari soluzioni visive e inquietanti ambienti lacustri. Non a caso, la sceneggiatura è fondata su ambiguità, bugie, rancori, doppi e tripli giochi in cui tutti sono potenziali carnefici e vittime. Nonostante il gore che caratterizza alcune sequenze, con effetti speciali a cura di Carlo Rambaldi, la pellicola – nota anche come “Reazione A Catena” – riserva pure frangenti ironici.
La contessa Federica Donati (Isa Miranda), paralizzata su una sedia a rotelle, è assassinata nella sua villa. Il killer è il marito Filippo Donati (Giovanni Nuvoletti) che, inscenato un finto suicidio, è a sua volta eliminato da una terza persona. Il suo corpo finisce nelle acque della baia adiacente, un luogo tanto isolato quanto incantevole che sarà centrale per gli sviluppi futuri della trama: l’architetto Franco Ventura (Chris Avram) è, infatti, intenzionato a trasformare l’area con un progetto edilizio, già osteggiato dall’anziana contessa. Nel frattempo, due coppiette che cercavano di appartarsi in loco sono trucidate per mano di uno sconosciuto. Quando Simone (Claudio Volonté), il guardiano della baia, ritrova il cadavere, Renata Donati (Claudine Auger), ipotetica ereditiera, è colta da un malessere e si rifugia nel vicino cottage dell’architetto, dove scopre i corpi dei ragazzi. È l’inizio di un’escalation di agguati, delitti e vendette, suggellata da un finale macabro.
Triplice il registro stilistico adottato da Stelvio Cipriani. Lo score di “Ecologia Del Delitto” (2017), ristampato in vinile dalla Cinedelic Records, si sviluppa attraverso brani dai connotati atmosferici (contigui ai numerosi omicidi), inserti finanche ballabili e rari momenti romantici, è il caso dei “classici” temi per pianoforte intitolati “Evelyn Theme” e “Solitudine Di Simone”. “Ecologia Del Delitto (Titoli)” offre una sintesi lenta e ipnotica della partitura, tra percussioni ossessive, il calibrato intervento dell’organo e gli immancabili archi sullo sfondo. Un canovaccio destinato a essere ripreso e variato nel corso di “Spiato”, “Tribal Shake”, “Guidando Nella Notte”, “Piano Diabolico” e “Decapitata”. L’elettronica distorta di “Ritrovamento Dei Cadaveri” contrasta, infine, con la bossa nova di “Due Amanti” e “Giovani E Liberi”, le digressioni lounge “Passeggiata Al Lago” e “Slow Giradischi”, oltre allo shake di “Shake Giradischi”. Ombre e luci, sublimate in “Teen-Agers Cha-Cha-Cha (Finale)”.
STELVIO CIPRIANI, La Polizia Ringrazia (Execution Squad) (2015, Dagored)
L’anello di congiunzione tra il cinema di denuncia e il poliziesco all’italiana, o la consacrazione di Enrico Maria Salerno come star del genere, prima dell’avvento dei commissari violenti dai baffi biondi, cioè quelli interpretati da Franco Nero e Maurizio Merli. “La Polizia Ringrazia” (1972) è anche il primo film in cui il regista Steno sceglie di ricorrere al suo vero nome, Stefano Vanzina, in modo da slegarsi dai suoi trascorsi con la commedia. Una pellicola di successo con quasi due miliardi di lire d’incasso al botteghino e oltre quattro milioni di spettatori in Italia, frutto del soggetto di Lucio De Caro, un giornalista politico che aveva sviluppato il personaggio del poliziotto “di ferro”, arrabbiato ma impotente, proiettato in un contesto fin troppo realistico per l’epoca, tra crimini efferati, complotti sovversivi e cittadini impauriti. Un prodotto di sicura presa, con frangenti drammatici, citazioni di cronaca nera, scene d’azione e una certa dose di violenza.
Nel corso di una rapina, due giovani uccidono la proprietaria di una gioielleria e freddano anche l’operaio che cerca di fermarli. Il commissario Bertone, capo della squadra omicidi, si occupa del caso. La polizia individua uno dei due rapinatori ma, prima di essere catturato, il ragazzo è ucciso per mano di un’oscura associazione che, in seguito, colpisce a morte altri fuorilegge nel quadro di un disegno più ampio, al fine di riscuotere consensi presso l’opinione pubblica, in vista di un vero e proprio colpo di Stato con cui instaurare una dittatura reazionaria. Bertone è posto sotto inchiesta dal sostituto procuratore della Repubblica, Ricciuti (Mario Adorf), con l’accusa di aver permesso o favorito il pestaggio di un pregiudicato da parte di alcuni uomini della sua squadra. Con l’aiuto della giornalista Sandra (Mariangela Melato), risale all’identità dei membri dell’associazione, tra i quali figura l’ex questore Stolfi (Cyril Cusack), ma è tradito dal collega Santalamenti (Ezio Sancrotti).
“La Polizia Ringrazia (Execution Squad)” (2015), una prima stampa in vinile firmata Dagored, celebra l’estro di Stelvio Cipriani, autore di una partitura breve, ma efficace, sentire “Vigilato Speciale”, teso canovaccio su cui fondare poi “L’Attesa” de “Incubo Sulla Città Contaminata” (1980), e la parziale introduzione a “La Polizia Ringrazia”, sintesi della creatività del compositore. Archi, chitarra, clavinet gli strumenti principali per esprimere al meglio sia il “dark side” del film, sia quel fioco bagliore di luce tra le tenebre, connotato da una vena melodica mediterranea, rimarcata da splendidi fraseggi al pianoforte. Il tema è variato e ripreso più volte. L’atmosfera sospesa, se non ai limiti dell’ostile, di “Ondata Di Violenza”, “Omicidio Nella Notte” e “Rapimento”, è controbilanciata dalla delicatezza e dalla malinconia espresse dal dittico “Notturno Per Un Commissario Di Polizia” e “Morte Di Un Commissario”. Di gran pregio il pathos in note in testa alla conclusiva “La Polizia Ringrazia (Finale)”.
STELVIO CIPRIANI, Cani Arrabbiati (2018, Spikerot Records)
Un viaggio alla scoperta della moralità umana, laddove i concetti di buono e cattivo, al pari dei ruoli di assassino e vittima, diventano relativi. “Cani Arrabbiati” (1974) è il capolavoro iperrealistico di Mario Bava (ormai slegato dal tradizionale retroterra gotico), tratto da un breve racconto di Ellery Queen, “L’Uomo E Il Bambino” (1971), pubblicato in appendice al numero 1162 della serie de “Il Giallo Mondadori”. Un road movie claustrofobico e violento, in linea con “Mordi E Fuggi” (1973) diretto da Dino Risi. Un’opera – mai distribuita nei cinema – dallo straordinario impatto visivo, sperimentale dal punto di vista stilistico, girata in piena estate sul tratto autostradale che collega Roma a Civitavecchia e quasi interamente all’interno di un’Opel Rekor: la post-produzione era già in corso, ma la bancarotta della Loyola Films decretò l’oblio ventennale del film e ulteriori lungaggini, come la circolazione di sei versioni con finali diversi.
Il Dottore (Maurice Poli), Bisturi (Don Backy) e Trentadue (George Eastman) rapinano il portavalori di un istituto farmacoterapeutico. Inseguiti dalla polizia, prendono in ostaggio Maria (Lea Krüger) all’interno di un parcheggio. Al semaforo salgono su un’altra vettura per depistare le indagini: Riccardo (Riccardo Cucciolla) è alla guida, mentre Agostino, un bambino ammalato, dorme sul sedile posteriore. L’obiettivo è raggiungere un cascinale dov’è nascosta un’altra macchina. Nel corso del tragitto, la donna subisce un tentativo di stupro da parte di Trentadue. È l’episodio che crea tensione tra i membri della banda. Il Dottore gli spara, ma è Bisturi a finirlo, dopo aver sgozzato anche una loquace autostoppista, pure lei di nome Maria (Maria Fabbri). I due sono, però, freddati da Riccardo, che nascondeva una pistola sotto la coperta del bambino. Impadronitosi del denaro della rapina, telefona alla madre di Agostino chiedendo un riscatto di tre miliardi di lire.
Lo score di “Cani Arrabbiati” (2018), pubblicato in vinile dalla Spikerot Records, è in linea con la migliore tradizione sonora del poliziottesco, che Cipriani stesso ha contribuito a creare, ad esempio col trittico “sui generis” “La Polizia Sta A Guardare” (1973), “La Polizia Chiede Aiuto” (1974) e “La Polizia Ha Le Mani Legate” (1975), per le regie di Roberto Infascelli, Massimo Dallamano e Luciano Ercoli. Non a caso, “Title Theme” è un ostinato a base di archi, clavinet, ottoni e percussioni, a cui s’ispirano “Seq. 2”, “Seq. 4”, “Seq. 5” e “Seq. 6”, che alternano frangenti cadenzati a riprese più insistenti, rimarcate da arpeggi di chitarra distorta. La più lunga “Seq. 8” è sostenuta da un sassofono dal timbro amaro. “Seq. 8 [Bossa]” un sorprendente episodio lounge, sottolineato dalla tromba. “Seq. 10” e “Seq. 13” altre evasioni dalla gradevole componente ritmica, seguite dalle melodiche “Seq. 16” e “Seq. 16 [II]”, che commentano i fotogrammi più umilianti di un piccolo cult.
STELVIO CIPRIANI, Poliziotto Sprint (2017, Digitmovies)
Il cavallino rampante trasformato in pantera. Roma, anni Sessanta, la criminalità dilaga, la polizia arranca. Banditi esperti e spregiudicati sono protagonisti di crimini di ogni sorta. Un brigadiere siracusano, Armando Spatafora, suggerisce l’idea d’inseguirli a bordo di una Ferrari, nera come la notte. È l’inizio della leggenda, con ladri che, addirittura, cercano il poliziotto solo per una gara di velocità: l’uomo dall’aspetto mite, ma addestrato a Maranello, si trasforma quando è alla guida, correndo persino il rischio di distruggere un’auto meravigliosa durante un inseguimento sulla Scalinata di Trinità dei Monti. Un episodio che è tra i momenti clou di “Poliziotto Sprint” (1977), un poliziottesco, ma senza sparatorie, diretto da Stelvio Massi. La nuova sfida tra delinquenti e sbirri avviene a colpi di acceleratore, con gli strepitosi stuntman del gruppo di Remy Julienne pronti a esibirsi tra le vie della città eterna. Crash, sorpassi mozzafiato e testacoda come se fossero reali.
Marco Palma (Maurizio Merli) è un giovane agente della squadra mobile, desideroso d’imitare le gesta del maresciallo Tagliaferri (Giancarlo Sbragia). Se ne infischia degli ordini dei superiori e causa disastri al volante di un’Alfa Romeo Giulia. Insegue i malviventi anche se non dovrebbe e, quando il collega Silicato (Orazio Orlando) non esce vivo dalle lamiere dell’auto dopo uno schianto, medita di lasciare la polizia. Il maresciallo Tagliaferri intravede, però, un certo talento e lo incarica di catturare l’abilissimo rapinatore Jean-Paul Dossena (Angelo Infanti), detto “il nizzardo”, che a bordo di una Citroën DS riesce sempre a beffare chi prova a inseguirlo. Allo scapestrato Palma è così affidata una vecchia e truccata Ferrari 250 GTE per infiltrarsi nella gang del francese. Divenuto il suo pilota è, involontariamente, “smascherato” dalla sua fidanzata Francesca (Lilli Carati), che lo riconosce per caso a un semaforo. Una volta catturato il nizzardo “a piedi”, il poliziotto lo lascia libero perché desideroso di arrestarlo al culmine dell’ennesimo vibrante confronto su quattro ruote.
La colonna sonora di “Poliziotto Sprint (Original Motion Picture Soundtrack)” (2017), a cura della Digitmovies, ha colmato un clamoroso vuoto discografico a distanza di otto lustri dall’uscita della pellicola. La polvere non ha intaccato la magnificenza impressa tra le pieghe dei temi “Speed Machine” e “Crazy Town”, già ascoltabili attraverso il 7” edito dalla C.A.M., espressione del “bright side” di Stelvio Cipriani, abile nell’alleggerire il tradizionale scontro tra esponenti del bene e del male. Il blues e il funk strumentali per creare una trama fitta, spensierata e vivace, su misura per il personaggio principale: è il caso di brani quali “Giungla Urbana”, “Caccia Spietata”, “Inseguimento” e “Pedinamento”, esaltazione dell’uno e dell’altro stile, dominanti durante 43 minuti di musica che, al di là di riprese e ritmate variazioni, includono anche la romantica chitarra al centro di “Tema D’Amore”, il dolce flauto di “Un Uomo Giusto” e l’eterea ellissi a base di sintetizzatori intitolata “Agguato”.
STELVIO CIPRIANI, The Bloodstained Shadow (2016, Death Waltz Recording)
Fuori tempo massimo. Il secondo e ultimo giallo-thriller di Antonio Bido è un piccolo cult per gli appassionati di cinema di genere, proprio come il primo, “Il Gatto Dagli Occhi Di Giada” (1977), ma avrebbe meritato miglior sorte. “The Bloodstained Shadow” (1978) fu distribuito nei cinema durante l’estate e non ebbe il riscontro sperato al botteghino. L’insuccesso commerciale costringerà il cineasta a ritorni sul set più sporadici. Il film era l’ennesimo “tardo” recupero del filone inaugurato dalla trilogia zoonomica di Dario Argento. Sin dal titolo adottato, vale a dire meno sangue e più suspense, il più “personale” “Solamente Nero” si poneva come un’alternativa a “Profondo Rosso” (1975): sviluppava la poetica del regista, trasferiva l’azione dalla provinciale Padova alla spettrale Venezia e perfezionava gli sviluppi narrativi generatori di tensione. Strumentale il ricorso a personaggi ambigui, coinvolti nella serie delittuosa sia sul piano emotivo che su quello psicologico.
Stefano (Lino Capolicchio), un professore di matematica, fa ritorno alla laguna veneta dov’è nato, ospite del fratello, parroco del luogo, Don Paolo (Craig Hill). Il suo arrivo coincide sia con una serie di omicidi, scanditi da lettere minatorie che il sacerdote continua a ricevere, che con terribili visioni che sconvolgono la sua mente. Il clima di paura s’infittisce e le sedute spiritiche condotte dal conte Mariani (Massimo Serato), pedofilo e omosessuale, dal medico Aloisi (Sergio Mioni) e dalla signora Nardi (Juliette Mayniel), ostetrica abortista che nasconde un figlio affetto da schizofrenia, alimentano i sospetti di Stefano. L’aiuto della restauratrice Sandra (Stefania Casini) consentirà al protagonista di scoprire che i delitti sono collegati al misterioso assassinio di una ragazza, del quale non è stato trovato il colpevole. Inseguendo i propri incubi da bambino, l’uomo giungerà alla verità. L’assassino è il fratello che, dopo aver confessato, si lancia nel vuoto dal campanile della chiesa.
Dopo aver fatto esordire i Trans Europa Express, il regista era intenzionato a scritturare i Goblin, ma alcune incomprensioni tra la Produzioni Atlas Consorziate (P.A.C.) e la Cinevox impedirono un vero e proprio lieto fine. La colonna sonora fu, infatti, affidata a Stelvio Cipriani, che si servì dei componenti del complesso come turnisti non accreditati. Sin dalla graffiante “Incubi Ricorrenti”, è ravvisabile il loro stile, trademark di un decennio di fervida attività. Il tema principale è affiancato da “L’Ossessione” e “La Dolce Sandra”: il primo un frammento atmosferico, il secondo un leitmotiv tanto dolce quanto malinconico. La tracklist di “The Bloodstained Shadow (Original Soundtrack Music From The Film)” (2016), una prima stampa in vinile a cura della Death Waltz Recording Company, il pianoforte in solitaria de “Il Giovane Professore”, la cupa e ossessiva “Gli Inganni”, la più elettronica e dissonante “Lettere” e la commistione di rock e musica sinfonica de “La Fattucchiera”.
STELVIO CIPRIANI, Il Fiume Del Grande Caimano (2014, Stella Edizioni Musicali)
Il trittico di pellicole “avventurose” composto da “La Montagna Del Dio Cannibale” (1978), “L’Isola Degli Uomini Pesce” (1979) e “Il Fiume Del Grande Caimano” (1979) conclude in bellezza il primo decennio dietro la cinepresa e, soprattutto, gli anni Settanta del “virtuoso” Sergio Martino, tra i migliori registi del cinema di genere tricolore. Dai cannibali in Nuova Guinea agli ibridi genetici, senza dimenticare il mostruoso rettile meccanico, il passo è stato breve. Coinvolgere e, soprattutto, stupire lo spettatore con nuove idee che andassero oltre il giallo-thriller, il poliziottesco e la commedia, supportate da effetti speciali talvolta ai limiti dell’artigianale, era una prerogativa per un abile cineasta. Nonostante una sceneggiatura discutibile, al netto dell’accattivante scenario tropicale, “Il Fiume Del Grande Caimano” è un beast movie con un buon ritmo e, soprattutto, una sottesa vena anti-capitalista. L’invasione delle terre, vite e culture altrui può rivelarsi dannosa e la natura quanto mai selvaggia.
L’industriale Joshua (Mel Ferrer) è intenzionato a costruire un moderno complesso turistico su un’isola tropicale. Gli indigeni, inizialmente pacifici e accoglienti, temono che l’arrivo degli stranieri possa risvegliare la loro divinità, un gigantesco caimano. Alcune strane morti, la prima a cadere è la fotomodella Sheena (Geneviève Hutton), mutano il loro atteggiamento. Nonostante ciò, i turisti aumentano di numero, attratti dalle bellezze selvagge locali, causando una certa preoccupazione in Alice (Barbara Bach), assistente del facoltoso uomo d’affari, e nel fotoreporter Daniel (Claudio Cassinelli), sul posto per un servizio fotografico. Un’eventuale fuga di notizie circa il pericoloso e vorace animale seminerebbe il panico tra i clienti. Il loro monito è, però, inascoltato e la tribù cerca di assicurarsi la protezione del loro dio trucidando clienti in segno di vendetta e catturando Alice, pronta al sacrificio per placare l’ira del sacro caimano, che continua a cibarsi dei visitatori dell’isola.
Il Fiume Del Grande Caimano (Colonna Sonora Originale)” (2014), tra le prime release dell’etichetta tedesca Stella Edizioni Musicali, è uno splendido spaccato del sound di Stelvio Cipriani, con brani declinati in chiave afrobeat, bossa e disco. All’introduzione di “The Great Alligator Theme”, marcata dall’uso della spinetta, segue, infatti, prima la vivace Alligator Dance con i fiati in primo piano e, poi, la ritmata “Rites Percussion Theme”, che fa leva anche su un centellinato ricorso del sintetizzatore, lo strumento principale delle minacciose “Underwater Fear”, “Alligator Attack”, “Ready To Attack” e “Underwater Mood”. Basso e chitarra concorrono all’atmosfera di angoscia strisciante generata nel corso delle brevi ma intense “Slow Suspense”, “Night Touch”, “Alligator Dance Suspense” e “Underwater Search”, il cui climax finale è raggiunto in “Alligator Terror”. “Soft Love Theme”, invece, la “classica” traccia intrisa di melodia ed esotismo firmata dal compositore romano.
STELVIO CIPRIANI, Papaya Love Goddess Of The Cannibals (2016, One Way Static Records)
Tra esotico ed erotico. Un soggetto sui generis, lo scenario insulare, una manciata di attori improvvisati. Budget, ovviamente, ridotto all’osso. L’altra sexploitation all’italiana. Uno tra gli oltre duecento film di Joe D’Amato. Senza fronzoli. “Papaya Dei Caraibi” (1978) è la prima pellicola del regista romano in cui tematiche horror e hard si sovrappongono. Nata in scia a “Duri A Morire” (1979), un action movie sempre girato a Santo Domingo, segnerà l’inizio del ciclo di prodotti coevi girati in loco fino al 1981 e, soprattutto, codificherà il cinema “ibrido” di Aristide Massaccesi. Prolifico e sperimentatore, da sempre in bilico tra i diversi generi, dallo splatter al porno, con spunti sottesi. È proprio il caso di “Papaya Love Goddess Of The Cannibals”. Le danze rituali caraibiche, i cruenti sacrifici umani e animali, i frangenti sessuali e un finale tragico convivono all’interno del medesimo copione, da cui trapela anche una vena ecologista e una sorta di morale anti-imperialista.
Una bellissima creola, Papaya (Melissa Chimenti) consuma un rapporto sessuale con un ingegnere della futura centrale nucleare locale e, quasi al termine, lo evira a morsi. Due complici incendiano la sua capanna in riva al mare con all’interno l’uomo agonizzante. Una giovane fotoreporter, Sara (Sirpa Lane), è in vacanza a Santo Domingo e, casualmente, incontra il suo amico Vincent (Maurice Poli), un geologo che supervisiona i lavori della costruzione del medesimo impianto. Una volta rientrati in albergo, esaurita la passione, Sara e Vincent rinvengono il cadavere carbonizzato dell’ingegnere “scomparso”. Un avvertimento. Mentre dalle indagini emerge un’altra morte sospetta, la ragazza conosce Papaya, tra le cameriere della struttura turistica, parte di un gruppo di irriducibili autoctoni che, per far posto alla centrale nucleare, era stato allontanato dalle proprie case. Il compito dell’isolana è raccogliere informazioni tra i bianchi, sedotti dalla sua bellezza, per sabotare i lavori.
La quasi totalità delle musiche è stata stampata per la prima volta in vinile per conto della One Way Static Records, anche se “Papaya Love Goddess Of The Cannibals (Original 1978 Motion Picture Soundtrack)” (2016) consta di sette tracce in meno rispetto la versione cd (2010) firmata Chris’ Soundtrack Corner. Nonostante ciò, la bellezza della partitura di Stelvio Cipriani è preservata e, soprattutto, esaltata da “Papaya Island”, ascoltabile con o senza vocalizzi di Edda Dell’Orso, presenti anche nella suggestiva “Papaya Dream”, dalla psichedelia di “Papaya Forest”, dai tribalismi di “Papaya Obsession” e dalle sonorità ‘tropicali’, tra blues e jazz: è il caso di “Papaya Bossa”, “Dancing Papaya”, “Guantapapaya” e “Jazzy Papaya”. Il tratto stilistico rock del compositore, proprio del coevo score di “Bermude: La Fossa Maledetta” (1978), emerge, invece, in “Papaya Run”, una corsa a perdifiato, “Papaya Lament” e “Papaya Hard String”, che recupera il tema principale, con protagonista la chitarra.