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DIRTMUSIC, Bu Bir Ruya

Chris Eckman, un tempo leader dei Walkabouts, ora di stanza a Lubiana e deus ex machina della Glitterbeat (*), e Hugo Race (anche lui con un lunghissimo cursus honorum alle spalle) si uniscono per questo progetto di musica sporca a Murat Ertel dei Baba Zula, storica formazione di Istanbul dedita a un’interessante psichedelia ottomana (potete vederli in azione nel bel documentario “Crossing the Bridge: The Sound of Istanbul di Fatih Akin”, con Alexander Hacke degli Einstürzende Neubauten a fare da Cicerone nella composita scena musicale della metropoli sul Bosforo).

Il saz del turco (una specie di liuto) dona ai pezzi un sapore vagamente oppiaceo e sospeso, a metà strada tra allucinazione dub e sogno freak: una sorta di desert blues mutante, intimamente psichedelico e lieve come una nuvola di fumo, di quello buono. I doganieri che presiedono le frontiere tra i vari generi musicali dormono il sonno dei giusti (?) in “The Border Crossing”, una riuscitissimo incontro tra languori da Americana, calori mediterranei (certi Almamegretta dei tempi belli di Sanacore non sono così lontani), brezze dello Stretto dei Dardanelli e di nuovo una sottile psichedelia che come un fungo invisibile e potente si impossessa di ogni spazio, senza opprimere, ma semplicemente dilatando. Come dei Calexico prima della nefasta sbornia pop (la prima volta che vennero a Bologna, erano i tempi di Spoke e The Black Light, eravamo in dieci, a dire tanto… si parla di vent’anni fa).

Dovevo escogitare un piano per attraversare il confine, sussurra sinuoso Hugo Race, e allora si passa di là con “Go To The Distance”, un trance-rock febbrile e sussurrato (dagli strumenti) a cui le voci a dire il vero non giovano, anzi. “Love Is A Foreign Country”, con la sinuosa voce di Gaye Su Akyol, potrebbe essere il pezzo da airplay della band, sensuale e catchy al tempo stesso, languida e carezzevole. L’amore è una terra straniera, certo, il concetto è già stato declinato in mille (e una notte) modi, ma qui viene porto in un modo semplice ed efficace: le virgole armoniche delle scale arabeggianti, un mood da perfetto buio stellato, una voce che sa stregare. Meno interessante “Safety In Numbers”, che ripete (senza grande inventiva, però) il canovaccio già precedentemente esposto. Chiude, tra avvolgenti spirali quasi da droneblues con una darabouka (percussione tipica di Nord Africa e Medio Oriente), “Outrage”: quasi sette minuti di ipnosi che profumano di terre lontane, antichissime e nuove. Il cammino dei Dirtmusic dà l’impressione di essere appena cominciato, chissà in quali terre ci porteranno al prossimo giro. Intanto, per stavolta, il consiglio è quello di controllare il passaporto e di mettere nello zaino lo stretto indispensabile: il viaggio sarà intenso, vero e fertile.

* Si tratta di un’etichetta che soprattutto, ma non solo, attraverso la sussidiaria Tak:Til ha negli ultimi tempi sfornato vere e proprie delizie come Širom, Three Dollar Bill, Joshua Abrams & The Natural Information Society. Direttamente con marchio Glitterbeat, invece, quest’anno c’è Communion della sudcoreana Jiha Park, di cui parleremo benissimo e presto.