DIPACE / MASSARIA / GALLO / FARAÒ, Collera City
Praticare, nell’ambito dell’improvvisazione, consiste nell’uscire dalla propria comfort zone, bagnandosi nelle acque del divenire, accogliendo l’informe e assecondando l’inaudito: questi sono soltanto alcuni degli insegnamenti che Cecyl Taylor (1929 – 2018) ci ha consegnato a futura memoria. Il quartetto Dipace, Massaria, Gallo e Faraò prende alla lettera il lascito tayloriano, proprio a distanza di pochi giorni dal trapasso del grande pianista newyorkese, con un misto di spirito di devozione, senso di continuità e piacere del rischio.
La musica di Collera City è tutto un dipanarsi istantaneo di centri di condensazione interni a una intensità metropolitana: in gioco c’è una fitta rete di azioni e reazioni reciproche, in cui l’articolazione del gesto è l’unità minima di scambio tra i partner. Non ci si aspetti nulla di caotico: in questo disco, al contrario, c’è la messa in opera di un eccellente “sistema di canalizzazione dell’imprevedibile”. I quattro ci danno il benvenuto con “You Practice”: il pianoforte di Dipace, con tre cluster ascendenti, configura subito l’esposizione dell’idea principale dalla quale si sviluppa la libera improvvisazione, la batteria di Faraò asseconda con i piatti (con funzione coloristica e pre-ritmica), poi entra Gallo, riprendendo la progressione esposta al pianoforte, con arte del rubato sul tempo interno, infine Massaria, che introduce dal nulla un secondo tema molto stretto e frammentato sul registro acuto. È il momento propizio per un fitto dialogo tra piano e chitarra, alla quale è lasciato lo spazio incrementale del fraseggio. La sezione ritmica sostiene una pulsazione aperta, irregolare, poliritmica, fino a che il pezzo si spegne in modo graduale, con una punteggiatura armonica di grande naturalezza. Abbiamo fin da subito l’impressione di essere partecipi dall’interno dell’atto creativo dei quattro. Poi è la volta di “So You Can Invent”: sono ancora cluster al pianoforte ad aprire le danze, due cluster fortemente ritmici, su un up-tempo. Ma a differenza della prima traccia, la funzione assunta da Dipace è qui quella di colonna portante, mentre basso, chitarra e batteria sono variabili indipendenti. A metà dell’improvvisazione emerge una figurazione bassistica che catalizza piano e chitarra attorno a una sorta di richiamo sirenico che si sfalda in un finale di ardita esplorazione timbrica. Con la successiva “Discipline? No” (titolo che riprende una citazione contestuale di Cecyl Taylor) siamo al lento acquisire forma da uno stato di nebulosa, per agguantare un canto ipnotico quasi-ligetiano sulle note ribattute e risonanti del pianoforte. Soltanto con l’esaurirsi di questa fase di transizione emerge un secondo momento che vede un’improvvisazione pianistica piuttosto memore di un Paul Bley. Il serpentino disegno armonico-ritmico di carattere monkiano del contrabbasso in “The Joy Of Practising” dischiude una serie di interventi pianistici (sia solisti che d’accompagnamento), con la chitarra distorta di Massaria felicemente libera di dirottare e turbare l’equilibrio acustico del quartetto: soltanto dopo una parentesi in cui sempre Massaria fa da cesura ed apripista, il gruppo esplode cinque minuti giubilanti di estasi e traboccanti di idee divergenti che scorrono tra loro come imperturbabili universi paralleli. “Leads You To” è invece l’unico slowtempo: trattasi di una ballad di grande respiro, ricca di estensioni armoniche, giochi di attese e lampeggianti richiami micro-tematici a standard, che però non risultano mai ricostruibili in una qualche loro interezza. “The Celebration Of” ci dà l’idea di creazione collettiva consapevole, procedendo per accumulo, implementazione e aggressione sonora, fino alla grottesca marcetta accelerata, impreziosita dal lavoro sulle arpe del pianoforte. È indubbiamente “Creation” a forzare le maglie del tessuto musicale fino a qui ordito, accedendo all’ignoto spazio profondo attraverso lo scandaglio di soluzioni timbriche cupamente evocative, senza però rinunciare, nella seconda parte, ad una costruzione lirica affidata alle progressioni del pianoforte. “Thanks Cecil”, con il suo rimando implicito al latin jazz, mette il sigillo, graffiante e scorbutico, su di un disco in cui la creazione non si riduce ad un mero rimando estetico-concettuale, ma si fa esperienza concreta ed esplorazione condivisa.