DIAMANDA GALÁS, 11/3/2016
Bologna, Teatro Manzoni. Nell’ordine, le prime due foto sono © Stefano Masselli, le seconde due © Notefotografiche. Li ringraziamo.
È un pubblico con molte aspettative quello che si trova alle 21 fuori dal Teatro Manzoni nel centro di Bologna. Si sentono il fermento e l’emozione nei commenti in fila alla biglietteria. Fermento che si riconferma in sala nel momento in cui la cantante greca appare una prima volta: minuti di applausi e urla, poi il silenzio, mai religioso (perché non si è in grado). Sul palco due scale, un pianoforte e un microfono, a lasciarlo quasi nudo, ancora da terminare, compito a cui penserà l’apparato di illuminazione.
La prima ventata vocale spaventa molti, ma non nel modo previsto. Si tratta di lirica, vetrosa e pura, pulita e trasparente, un azzardo che più di qualcuno apprezza, ma non siamo all’opera e si sente. Questa scelta stilistica immagino sia dovuta anche a un volersi reinventare, il che è ottimo, ma la resa dei pezzi cantati in questo modo non è ottimale. Molto convincente invece il resto. La poliglottia della Galás aiuta come sempre a esplorare le diverse sfumature sonore della lingua, a percepirne le vibrazioni etniche e lessicali. Italiano, inglese, francese trovano tutti la loro comune radice musicale: questa è una delle magie che riescono oggi alla fata nera. Ogni pezzo gode di un’instabile identità, messa in vetrina da una presentazione o solo per voce o con l’accompagnamento del pianoforte, sempre suonato dall’artista. L’interazione tra Diamanda e il piano è “maledetta” quanto la cantante stessa: viene percosso, schiaffeggiato e usato con un intento romantico, ma sempre con la consapevolezza che è uno strumento del diavolo. Ed è qui che viene fuori l’essenza del concerto, una serie di litanie, riproposte sotto le mentite spoglie di una voce più normale rispetto a quella alla quale si è abituati. Una specie di cabaret mortale che intrattiene la platea solo per gioco, illudendola di ascoltare una voce idilliaca, ma che altro non è che Diamanda Galás che sa quello che sta facendo, cioè portare il suo pubblico in un antro ancora più oscuro e ce lo fa notare bene, quando davvero la sua voce più macabra infesta le orecchie e fa rabbrividire gli animi dei presenti. Il tutto si dipana con quest’oscillazione rapida e confusa di situazioni fra l’aulico e il profano. Non dunque un concerto classico di Diamanda Galás questo di stasera, ma più un viaggio a ritroso per vari pezzi ricordati e proposti come ricordi, con lo stesso fine degli originali: la tentazione.