Di Stanze e Aperture

Elisabetta ed Emanuele Porcinai sono sorella e fratello, di base attualmente a Berlino. Le note del loro comunicato stampa sono firmate da Dean Roberts, Andrea Belfi sparge note di batteria, Alf Brooks basso ed elettronica, Martina Brandorff il flauto. Preferisco dare in pasto subito i nomi, per poi poterci dedicare alle nove tracce, che vanno a comporre Stanze, di 5 anni successivo all’esordio Threads. Sono passati 30 anni dall’omonimo disco dei Massimo Volume, e la cosa stupenda è percepire le affinità e le divergenze di due progetti del genere. Qui siamo su toni radi, dilatati ed aerei, voci femminili e maschili che fanno della loro delicatezza e della loro intensità ragione d’essere. Il primo ricordo, ascoltando la voce di Elisabetta sulle minime coordinate sonore messe a disposizione, è quello di un fumetto, una classica immagine che stringe su un personaggio presentandoci i suoi pensieri ed i suoi intenti. I testi sono sia in inglese che in italiano, ed il mescolarsi delle due lingue crea una sorta di straniamento, quasi a strapparli definitivamente dalla terra apolidi e senza gravità. A tratti la musica scompare, rimangono i segni, i colpi della batteria, i suoni dei mantici, il claudicare di di un calvario come “Weightless”.

Personalmente, quando la musica si fa così rarefatta e allo stesso tempo densa, alla mente ritornano immediatamente gli Enfance Rouge di François Cambuzat ma qui c’è molto altro. La melodia della voce di Emanuele, lo scarnificare di quella di Elisabetta, sono tensioni che tirano il tessuto nella loro direzione creando grinze che danno spessore e personalità all’intero lavoro. Opposti che si attraggono e che sono giocoforza parti del medesimo insieme: castità e sessualità, recita e naturalezza. Un lavoro intrigante, stimolante e fuori dal tempo. Così parco di suoni da rendere più attenti e propensi a dedicarsi completamente ad ogni sfumatura.

Dopo l’ascolto di Stanze, ed il ritorno a Threads, che su queste pagine fu trattato da Fabrizio Garau poco più di 4 anni fa, contatto i fratelli Porcinai, Emanuele ed Elisabetta (originari di Firenze ma ormai da anni di stanza a Berlino), per approfondire alcuni discorsi su musica, parole, lingue e luoghi che compongono un mondo all’apparenza ermetico, ma che, giro dopo giro, brano dopo brano, è in grado di accoglierci fra le sue braccia. Il disco esce per Stray Signals e chiama attorno a sé diversi luminari dell’elettroacustica, mantenendo una freschezza invidiabile ed al medesimo tempo uno spessore ed una maturità che rendono molto intrigante la proposta. 

30 anni dopo i Massimo Volume, un altro Stanze. Un altro album dove parole e suono si uniscono in un altro modo, fuori dal seminato, ma in qualche maniera partendo comunque da territori comuni, in qualche modo lo scardinare la canzone. Affinità e divergenze? Citazioni ed omaggi o caso?

Emanuele: Indirettamente ci troviamo più o meno in territori comuni. La citazione diretta dei Massimo Volume è casuale, ma siamo stati sicuramente molto influenzati da altri artisti e gruppi tra rock, post-rock e spoken word (tipo Slint o Shipping News). Il tentativo di scardinare la canzone in realtà è a sua volta un po’ casuale. Quello che a noi interessa è in qualche modo creare canzoni che stiano in piedi sulle loro gambe, ma con il linguaggio che conosciamo, cioè musica elettroacustica, poesia e registrazione come metodo compositivo. Il contesto band, prove, suonare dal vivo senza un computer è per noi ancora piuttosto nuovo e in parte ancora estraneo.

Elisabetta: Per una volta il titolo ci è venuto in mente in modo spontaneo (scegliere quello per il primo album fu un parto!). Ci piaceva l’idea di usare una parola che avesse un significato in entrambi le lingue impiegate nell’album, ovverosia l’italiano e l’inglese. Stanze è innanzitutto un riferimento a una delle ossessioni portanti della nostra musica: l’intimità degli spazi chiusi, gli echi e le risonanze che si creano al loro interno, sia in senso emotivo che sonico. Ma “stanza” è anche un termine proprio della poesia – adottato in quell’accezione anche in lingua inglese – e quindi un riferimento alla nostra ossessione numero due.

Due voci, opposte e a tratti complementari, due lingue. Quale il vostro rapporto con la parola in musica? Dovendo scegliere un autore letterario che possa rappresentare la poetica di ognuno di voi, chi scegliereste (se esiste, potreste anche essere voi stessi o l’un per l’altro)?

Emanuele: Per quanto mi riguarda ho lavorato da solista quasi esclusivamente a livello strumentale e la parola, la voce, per me è ancora lo strumento che, tra tutti, è il più difficile mettere in equilibrio. Quando ci riesco però diventa anche l’elemento che riesce a incorporare nel modo più libero ed universale quello che risuona tra dentro e fuori. Se funziona vuol dire che già esisteva e aspettava solo di esser registrato. L’autrice letteraria che mi ha plasmato di più e che mi ha insegnato a cercare di far passare il mare in un imbuto è senza dubbio Natalia Ginzburg.

Elisabetta: Fino a qualche tempo fa la parola per me era tutto: la “musica” era principalmente il superpotere di Emanuele. Io scrivevo. Ho cominciato coi miei incubi: ho notato che, trascritti a distanza di qualche giorno, assumevano il carattere distillato di una poesia. Le meraviglie della scrittura automatica: balzi, nonsense, lacune in cui proiettare immagini. L’italiano è una new entry. Molti amici qui a Berlino ci chiedevano perché non facessimo musica in italiano, essendo l’italiano “così bello” (cit.). Dopo una vita passata ad ascoltare musica anglofona ci siamo accorti infatti che usare la nostra lingua madre tirava fuori un aspetto forse ancora più “nudo” e disarmante di noi stessi.
Autori che mi rappresentano? Direi Doris Lessing, per il suo modo di creare tensione e atmosfere morbose con la più semplice delle prose. Ma anche la violenza velata dei testi di PJ Harvey. Citerei anche Edoardo Sanguineti ed Antonio Porta, ma più come esempi a cui aspirare umilmente per il loro meraviglioso modo di frammentare lingua e realtà.

Andrea Belfi, Dean Roberts, Alfred Brooks, Martina Brandorff. Eppure mi sembra che il disco ed il progetto viva di una beata unicità. Si può essere aperti senza essere dispersivi? Le collaborazioni partono da uno spunto precostituito oppure accadono, lasciando al momento la libertà?

Emanuele: Ti ringrazio molto per le belle parole; penso che le collaborazioni possano partire da uno spunto precostituito ma che si debba anche lasciar loro modo di accadere senza fissarsi su un’aspettativa o un fine. Alfred, Andrea, Martina e Dean hanno contribuito ognuno alla creazione del disco tanto a livello umano quanto musicale. Per me collaborare con qualcuno ha un senso solo se la cosa arricchisce entrambi, e sono molto felice di poter dire che questo aspetto è uno dei miei principali drive nel fare musica qui e oggi.

Elisabetta: Abbiamo la fortuna di vivere in un luogo in cui non si è solo amici, ma anche reciproci fan. Alfred, in particolare, è stato essenziale nello sviluppo della nostra sonorità nella sua dimensione live, e alcuni brani di questo album sono il frutto di improvvisazioni tra noi tre. Quindi in risposta alla tua domanda: sì, assolutamente. Con le persone giuste, e col giusto dosaggio di ego. 

Daniele Brusaschetto, Kathrina Ford, Gastr del Sol, Come. Questi alcuni dei rimandi ascoltandovi per la prima volta… quale mondo sonoro abitano Aperture? Che storia pregressa avete e quale l’intento?

Elisabetta ed Emanuele: Definire la nostra sonorità allo stato attuale risulta difficile anche per noi. Abbiamo iniziato a muovere i primissimi passi oltre 15 anni fa, da un lato plasmati dalle atmosfere un po’ morbose e languide del trip hop (Portishead, Massive Attack) e dall’altro da artisti che usano voce e elettronica in modo molto più tagliente, come i The Knife. Con la distillazione del tempo e il coinvolgimento di Emanuele in una scena più connessa alla musica elettronica ed elettroacustica siamo arrivati a produrre Threads, il nostro primo album, che ha un approccio molto essenziale e decisamente orientato più alla composizione acusmatica che alla forma canzone (elettronica, field recordings, spoken word e gli strumenti a corde di Emanuele). Ma quando abbiamo iniziato a suonare e a improvvisare insieme dal vivo con strumenti come basso, chitarra, e percussioni, ha iniziato a emergere un’energia molto più viscerale.

Elisabetta: Sono infatti molto affezionata al nostro Live Recordings, perché siamo essenzialmente noi con anima, corpo e adrenalina (e tutta la mia paura di salire sul palco). È interessante che tu abbia citato i Gastr del Sol di David Grubbs, comunque parte della scena di Louisville e vicini ad un’estetica che ha influenzato molto il nuovo disco, come quella degli Slint e dei The For Carnation. I primi in particolare capaci, a mio avviso, di un’emotività ridotta all’osso e di esprimere fragilità in modo compostamente violento.

Stray Signals: etichetta? Venue? Com’è successo?

Stray Signals è una serie di eventi iniziata a Berlino circa sei anni fa dal nostro amico e collaboratore Alfred Brooks, che ha saputo dar voce a una scena che non si lasciava facilmente definire rispetto a ciò che esisteva nella Berlino pre-Covid, mischiando generi e influenze estremamente distanti (tra noise, elettronica, musica contemporanea, performance, ambient, canzone) ma con un’intenzione comune. Un gruppo di persone ha poi deciso, insieme ad Alfred, di aprire ed estendere la cosa in forma di collettivo ed etichetta. Tra tutti noi coinvolti (con Davide Luciani e Jordan Juras) c’è sempre stata una forte necessità di scambio artistico e umano, e il poter lavorare insieme all’interno di una struttura che offre uno sbocco per tutti i nostri progetti individuali, ma anche comuni e collettivi, è estremamente entusiasmante.

Perché Berlino? Da quanto tempo? Che rapporto avete con il tedesco? L’ho sempre trovata una lingua parecchio musicale (credo tutt’ora che Rock dei Surrogati sia uno dei migliori album noise rock di sempre). Lo masticate? Valutereste una Übersetzung in Öffungs?

Emanuele: A Berlino dal 2015, il tedesco personalmente l’ho imparato molto lentamente ma alla fine riesco a sentirmici a casa (tipo che sogno in tedesco) e inizio a capire i suoi perché. Mi piacerebbe molto scrivere qualcosa in tedesco ma non ci sono ancora riuscito…

Elisabetta: Il tedesco è tosto: lo parliamo piuttosto bene ormai, ma è difficile domarlo. Personalmente non ho mai la sensazione di padroneggiarlo veramente, sicuramente non come vorrei. Fare musica in tedesco per il momento mi sembra quindi una cosa piuttosto utopica. Probabilmente il risultato sarebbe analogo a quello delle boy band anni 2000 che cantavano in italiano.

Prossimi impegni/progetti?

Il primo concerto di presentazione del disco ad aprile ed il tour a settembre!