Desertfest 2013

Desertfest

Quest’anno sembra proprio che noi di The New Noise, in ambito doom, non ci siamo fatti mancare nulla: se i nostri Fabrizio Garau e Marilena Moroni sono andati al Roadburn, il più famoso festival del genere al mondo, a me è toccato invece il Desertfest, un evento che, nonostante sia solo alla seconda edizione, è sembrato da subito molto promettente, e che potrebbe divenire presto il secondo festival di riferimento per chi segue queste sonorità. A differenza del suo “collega” olandese, ha luogo in due città diverse, Londra e Berlino, che condividono più o meno la stessa line-up: nella capitale inglese le cose sono fatte ben più in grande, con quattro locali di riferimento (l’Underworld, il Jazz Cafè, il Black Heart e l’Electric Ballroom) e molti artisti in più rispetto all’edizione tedesca. Dovendo andare a trovare un amico nel cuore della Gran Bretagna, ho colto l’occasione per fare un salto a Camden Town e guardarmi anche questo show, ed ecco qui un resoconto di come sono andate le cose.

Venerdì 26 aprile

Kadavar - Desertfest

Sono a Londra da già due giorni e il clima è a dir poco ottimo: la primavera è arrivata, fa caldo e c’è il sole, con qualche nuvola che ovviamente da queste parti non manca mai. Non ho mai visto concerti in nessun locale nella zona, ma l’ultima volta che visitai la città, nel 2009, ebbi la grande fortuna di assistere ad una delle rarissime performance dei Corrupted a La Scala, vicino King’s Cross, con Thorr’s Hammer e The Accüsed in apertura (quest’ultimo nome molto fuori luogo, ma in ogni caso tutti e tre fecero uno show memorabile). Arrivo a Camden verso l’ora di pranzo, giusto in tempo per recarmi al World’s End, il pub attaccato all’Underworld dove il primo giorno ti mettono il braccialetto valido per tutto il weekend, e farmi anche un giro nella zona. Scopro ora che quelli dell’organizzazione hanno deciso di far suonare due volte alcune band in programma, una regolare e un’altra, acustica, presso il Vans Store lì vicino, nel quale entrerò giusto per vedermi la fine dei Trippy Wicked (duo acustico che ripropone classici del genere in una versione un po’ improbabile) e gli Hexvessel. Bisogna ancora attendere qualche ora per l’inizio delle danze, ma c’è già diversa gente, soprattutto al Black Heart, dove inizierà a suonare il primo gruppo, i Rise Of The Simians. Il posto è piccolino, contiene massimo 150-200 persone (strette), eppure è già quasi pieno, probabilmente perché i nostri, venendo dal Sussex, hanno già una discreta fanbase che è accorsa a vederli. Non sono un grande appassionato del loro “post-sludge” à la Unhearthly Trance, però come inizio non sono stati affatto male, una band senza infamia e senza lode che probabilmente non avrei visto se non fosse stata messa in apertura, ma che tutto sommato diverte. Mi metto subito i tappi per le orecchie, ma i volumi si riveleranno non essere così alti quanto pensavo. Questo è il mio primo vero festival stoner/doom (se escludiamo i vari Stoned Hand Of Doom che ho visto qui a Roma), oltretutto anche il primo indoor, e i ricordi che avevo dei concerti visti negli USA erano di volumi a livelli impossibili (soprattutto la tripletta Kylesa/Torche/High On Fire, con questi ultimi che suonarono ancora più forte). Terminati i 40 minuti della loro esibizione, mi becco i Crystal Head e il loro pseudo-stoner à la Queens of The Stone Age al Jazz Cafè, che per questioni di orari non riuscirò a vedere per intero, ma solo per un misero quarto d’ora.

Intorno alle 16 cambio nuovamente locale, dirigendomi verso l’Underworld per la performance degli inglesi Black Moth. Il quintetto stoner trova davanti a sé un locale bello pieno, il che mi lascia abbastanza di stucco: tutto mi sarei aspettato tranne vedere già 500 persone alle quattro del pomeriggio per un gruppo che da noi farebbe 80 paganti (se va bene). Capitanati dalla bella Harriet Bevan, ci regalano tre quarti d’ora di ottimo rock n’ roll, suonando quasi per intero il loro debutto The Killing Jar, uscito per New Heavy Sound. Non sono ancora abituato a tutta questa gente, ma da quel momento mi sarà ben chiaro il fatto che qui al Desertfest per vedere bene i gruppi tocca fare molta attenzione agli orari, almeno per guardare i concerti come si deve senza esser travolti da tutto quel pubblico.

Per fortuna, al Vans Store, quando tocca agli Hexvessel c’è meno gente: nonostante il loro “folk psichedelico” non sia esattamente il mio genere di cose, risultano essere gli unici veramente adatti a suonare in acustico in questo piccolo negozio, e quella mezzora concessa loro si dimostrerà anche rilassante. Inizio già ad accusare tutti questi spostamenti: l’ultimo festival che vidi su più palchi fu il Wacken del 2008, che – essendo un open air estivo in aperta campagna tedesca – risulta esser completamente diverso da questo indoor nel cuore di una Camden bella ma trafficata, con pochi spazi per riposarsi un attimo tra un viaggio e l’altro.

L’unico posto dove posso andare è l’Underworld, dove al momento suonano i francesi Mars Red Sky che sentirò da lontano perché ormai fare a cazzotti per uno show già iniziato da molto non è la cosa migliore: mi tocca aspettare un’ora perché si svuoti prima dell’inizio del concerto degli Yawning Sons. Il quartetto, frutto di una collaborazione tra il chitarrista degli Yawning Man, Gary Arce, e i Sons Of Alpha Centauri, suona quasi tutto l’unico disco pubblicato, Ceremony Of The Sunset, davanti a molta più gente di quanta ce ne fosse due ore prima ai concerti precedenti. Propongono quasi solo pezzi strumentali, a eccezione di “Meadows”, per la quale interviene sul palco Mario Lalli alla voce. A mio avviso, nonostante le canzoni siano state eseguite perfettamente (a parte qualche problema alla chitarra di Arce), non credo che siano il tipo di band da vedere live, e soprattutto in una sede così affollata e con pochi spazi per respirare.

Lo stesso si può dire anche per i successivi Yawning Man, per i quali l’attesa era grossa (fatto comprensibile, essendo loro stati tra i precursori di quel sound desertico che di lì a poco avrebbe influenzato pesantemente i Kyuss). Sarà che, come detto sopra, noi italiani siamo abituati a locali piccolissimi, ma qui risulta veramente difficile immergersi nel loro sound sognante e psichedelico, anche ora che per fortuna sono riuscito a prendermi un posto buono per guardare l’esibizione. Se a casa questo genere di musica mi rilassa, qui la trovo anche stancante, e inizio a pregare che un qualche dio mi faccia apparire una sedia da qualche parte. Terminata la performance, esco finalmente dall’Underworld e vado a mangiare, il che per mia fortuna mi riabilita dopo tre ore chiuso là dentro.

Visto come sono andate le cose, senza esitazione decido di non vedere i Fatso Jetson e di optare per i tedeschi Kadavar, che di lì a poco calcheranno il palco del Jazz Cafè. La scelta si rivela azzeccata, perché il power trio di Berlino ci regala un ora di intenso hard rock in pieno stile fine ’60/inizio ’70, che mi rivitalizza in pieno, grazie anche alla capienza del locale, ben più ridotta di quella del precedente (il che mi permette anche di guardarmi il concerto in prima fila). Eseguono diversi brani da entrambi i loro album, Kadavar e Abra Kadavar, davanti a un’audience veramente in delirio, il che riesce finalmente a risvegliarmi e a ridarmi la forza. Chiude il loro show una “Creature Of The Demon” a lungo attesa da tutto il pubblico, un ottimo finale per questa prima giornata.

Sabato 27 aprile

Unida - Desertfest

Già prima di partire per Londra avevo aspettative molto basse riguardo al primo giorno, sapendo che sarebbe stato sostanzialmente una prova per capire bene come muoversi in quest’autentica giungla che è il Desertfest. Decido quindi di prendermela più comoda per evitare affanni, pianificando con largo anticipo i miei spostamenti. Purtroppo la distanza da dove alloggio non è trascurabile, e tra una cosa e l’altra non riesco ad arrivare prima delle 15, vedendomi la fine dei Chron Goblin, un quartetto locale non lontano dalla proposta dei Black Moth, ma con voce maschile e ben più vicino al sound dei Corrosion Of Conformity: un inizio molto carino, ma che non lascerà grandi tracce. Lo show dei Chron Goblin finisce esattamente quando quello degli Skeleton Gong inizia al Black Heart, che trovo già strapieno tanto da non riuscire a vedere nulla. A questo punto vado a mangiare lì vicino, e mi rilasso un attimo. La totale assenza di distro nell’area del festival mi spinge a cercare negozi di dischi nei paraggi: ne trovo uno ben fornito abbastanza vicino da dove mi trovavo, e appena arrivo incontro gli Ufomammut, coi quali mi accordo per un’intervista più tardi, il che mi permette di farmi un bel giro dentro a questo negozio e di vedermi i War Iron, sempre al Black Heart, in tutta calma. Sono tra i pochi gruppi sludge presenti, e la loro scelta di usare due bassi mi rende veramente felice, perché adoro questo tipo di soluzioni. Il loro sound monocorde ma efficace mi convince appieno, lasciandomi davvero soddisfatto, come del resto sembra esserlo anche il resto del pubblico, vista la grande quantità di gente che fa headbanging durante il concerto. Senza dubbio si sono dimostrati tra i migliori di tutto il festival.

Arrivo un po’ tardi alla performance dei Lowrider all’Electric Ballroom, che suonano quindi nel locale più grosso, già con un migliaio di persone dentro. Sia loro sia i Dozer si sono riuniti apposta per il Desertfest, ma mentre questi ultimi renderanno onore al nome che si portano, continuo a non capire perché osannare i Lowrider: hanno fatto un unico disco nel 2000, Ode To Lo, carino ma niente di più. Lo ripropongono questa sera. Oltre al fatto che le chitarre risultano un po’ impastate, non mi lasciano quasi nulla, e a questo punto, in una scena già satura di cloni dei Kyuss, non comprendo la ragione per elevarli a gruppo di culto, quando penso siano lontani anni luce da uno status del genere. I miei spostamenti per oggi finiscono qui, dopo di loro salgono i Dozer e subito dopo gli Unida, mi tocca quindi tristemente saltare gli Ufomammut, che – nonostante li abbia già visti in Italia – sarei stato molto curioso di rivedere in questa sede, con l’Underworld sicuramente strapieno.

I Dozer si trovano con gli stessi problemi alle chitarre che sono toccati ai Lowrider, ma essendo un gruppo di ben altro spessore, la sua carica live è notevole, e il pubblico lo accoglie in visibilio, per la prima volta anche pogando sotto il palco ogni tanto. Personalmente non sono mai stato un loro grande fan, ma devo dire che i ragazzi qui se la stanno cavando benissimo, soddisfacendo appieno le aspettative di tutti i presenti.

Di ben altro calibro ancora, però, saranno gli Unida, che metteranno letteralmente a ferro e fuoco l’Electric Ballroom, fin dalle prime di note di “Flower Girl”, solo accennata e poi fatta confluire in una “Wet Pussycat” da far venire i brividi. John Garcia è al massimo della forma, ma così anche il resto del gruppo, soprattutto il chitarrista Owen Seay, che ha anche un’ ottima presenza scenica. Il gruppo suona buona parte del suo unico disco (Coping With The Urban Coyote), più quasi tutto il lato del suo split coi Dozer, oltre a qualche pezzo di quel The Great Divide che non è mai uscito per problemi legali, ad esempio “Stray”, la cover dei Leaf Hound. Gli Unida terminano la loro ora e mezza con una “Black Woman” che lascia il segno, così che tutti possano tornare a casa contenti dopo questa seconda giornata, decisamente meglio riuscita della prima.

Domenica 28 aprile

Pentagram - Desertfest

Il sabato alla fine si conclude con un party casalingo terminato in condizioni pietose verso le tre e mezzo di mattina, e tra una cosa e l’altra anche oggi non arrivo a vedermi i concerti prima delle 15, causa anche altre eventuali spese nei negozi vicini, visto che anche oggi di distro non c’è manco l’ombra.

Inizio coi francesi Glowsun all’Electric Ballroom, sono un gruppo che mi è stato altamente consigliato e che quindi vedo di non perdermi. Il trio francese molto à la Sleep è un ottimo inizio, il suo stoner psichedelico e strumentale allieta i quasi cento presenti con molti pezzi dall’ultimo Eternal Season.

Finita la performance dei Glowsun, mi dirigo al Black Heart, pensando che i Conan stiano suonando là, ma quando mi accorgo che in realtà sono all’Underworld hanno già iniziato, il posto è strapieno e mi tocca guardare lo show un po’ da lontano e un po’ da posti scomodi. Per quello che riesco a vedere, sono a dir poco magistrali, e se è vero che in diversi concerti grossi dove hanno suonato sono stati chiamati apposta dagli stessi headliner, la loro fama è più che meritata.

Mi sposto di nuovo all’Electric Ballroom, perché sta per iniziare a suonare Victor Griffin con i suoi In-graved. La sua presenza scenica è esemplare, tutti lo guardano ammirati e sostanzialmente potrebbe anche stare sul palco da solo, senza gli altri strumenti di contorno. Il repertorio è in buona sostanza preso dal disco omonimo degli In-graved, con qualche chicca come “The Fall” dei Place Of Skulls e la cover finale di “Don’t Let Me Be Misunderstood” degli Animals.

Tempo mezz’ora di cambio palco e attaccano i NAAM. Inizio ad accusare la mancanza di sonno, trovo per fortuna dei posti per sedermi nel piano di sopra e mi godo il concerto da là: la band di Brooklyn non sembra affatto male, ma in linea di massima è senza infamia e senza lode, piacevole ma di sicuro niente che mi colpisca granché, complice forse il fatto che mi è risalita tutta la stanchezza. Li lascio un quarto d’ora prima, perché all’Underworld sta per iniziare uno dei concerti che più aspettavo.

Appena i Belzebong attaccano con “Bong Thrower”, mi sento rivitalizzato e mi butto in un headbanging furioso, come se fossero il primo gruppo visto in tre giorni. I polacchi, con il loro stoner/sludge strumentale e palesemente influenzato dagli Electric Wizard, mi danno quello di cui avevo bisogno per continuare sino a fine serata. L’atmosfera è molto coinvolgente, complice anche la macchina del fumo, che grazie a una luce verde sembra uscire dal calderone di una strega. Nonostante quello che vedo sia del tutto derivativo, non riesco a non divertirmi tantissimo. I tre quarti d’ora concessi alla band sono stati tra i migliori di tutto il festival, con tutto che le aspettative non erano di certo così alte. Promossi a pieni voti.

Indeciso tra i Witch Mountain e i Truckfighters, sebbene io sia più vicino alla sonorità dei primi, scelgo invece i secondi per pura curiosità: me ne hanno sempre parlato benissimo, e in moltissimi qui indossano una loro maglietta. Quando salgono sul palco e attaccano con “Desert Cruiser” c’è il delirio più totale, al punto che il gruppo decide di far cantare quel “i’m running out of you” del ritornello al pubblico di un Electric Ballroom strapieno. Il chitarrista Dango è veramente scatenato, salta di continuo, si agita, e a un certo punto scende dal palco per suonare vicino alla gente. Si sentono come a casa, perché fino ad ora, se non per gli Unida, non s’era visto tutto questo casino. Io gradisco fino a un certo punto e mi chiedo se ho fatto la scelta giusta, però devo dire che in sede live, se uno li apprezza non può rimanere deluso. Sono senz’altro tanti quelli che la ricorderanno come la performance migliore di tutta la manifestazione: io non sono d’accordo, ma davanti a uno show del genere è difficile avere qualcosa da obiettare.

Il festival si avvia verso la conclusione e volendomi vedere bene i Pentagram decido di lasciar perdere i Cough e rimanere qui per i Colour Haze (ovviamente i Bongripper, il secondo gruppo che attendevo di più, suonano in contemporanea con gli headliners e mi tocca, tristemente, saltarli). Non so bene cosa aspettarmi dal trio tedesco, ma le mie convinzioni a riguardo rimangono le stesse di prima di averli visti. La loro proposta musicale è senza dubbio particolare, e sebbene siano di derivazione “desertica”, hanno nelle parti pulite e sognanti il loro punto di forza, mentre quando distorcono tutto perdono buona parte del loro mordente. Pezzi come “Moon”, “Love” e la conclusiva “Aquamaria” sono state le parti salienti del repertorio eseguito stasera, anche se il resto del pubblico è apparso più coinvolto durante pezzi che a me hanno detto meno.

D’altronde anche durante tutto lo show dei Colour Haze c’è un solo nome che echeggia nella mia mente, quello dei Pentagram, che attendevo sin dal primo giorno. Iniziano a suonare un quarto d’ora dopo attaccando con “Day Of Reckoning”, proseguendo con una “Forever My Queen” eseguita in maniera magistrale. È la prima volta che li vedo e rimango entusiasta delle mosse e dal carisma del mitico Bobby Liebling, che nonostante gli anni è in formissima ed ha ancora tutta la voce che gli serve per conservare la sua fama. Rimango all’inizio un po’ incerto sulla scelta del chitarrista di usare una Guild semiacustica simil Gibson Es 335, che suona molto diversa dalla Les Paul di Griffin e dei dischi più metal del gruppo di Arlington, però c’è un motivo dietro a questa scelta: buona parte della setlist questa sera sarà presa dal loro repertorio degli anni Settanta, che suona molto meglio così. Canzoni come “Wheel Of Fortune”, “The Ghoul”, “Review Your Choices”, “Relentless”, “20 Buck Spin”, un’inaspettata “Be Forewarned” e “Sign of The Wolf” rendono i presenti soddisfattissimi del concerto di stasera, che a mio avviso è il migliore di tutto il festival, senza se e senza ma. L’unica pecca è quando preferiscono “When The Screams Come True” ad “All Your Sins” nel finale, ma nulla di grave. Finalmente, dopo averli persi a Ravenna due anni fa, sono riuscito a vedermeli, e sono davvero contento della loro esibizione.

Desertfest 2013. Conclusioni

Quest’esperienza londinese del Desertfest, sebbene io continui a trovarmi meglio con gli open air estivi, si è rivelata senza dubbio positiva: tutti e quattro i locali scelti sono molto sopra gli standard italiani, sia come acustica sia esteticamente parlando, di certo di gran lunga migliori di quelli romani (alcuni dei quali lasciano proprio a desiderare). Così tanto pubblico a volte è eccessivo, però fa sempre piacere vedere quando il merito di un artista è riconosciuto, quindi su quello niente da dire. L’unica vera pecca è stata la totale assenza di distro, se non – come logico – per il merch dei gruppi, ma viene da chiedersi come mai nient’altro in un festival così grosso, anche se lo spazio in effetti non era chissà che per altri banchetti. Dal punto di vista musicale, i migliori sono stati War Iron, Unida, Belzebong e Pentagram. Probabilmente anche Ufomammut e Bongripper avranno spaccato, ma questi orari veramente folli me li hanno fatti saltare. Forse la prevalenza dei gruppi stoner su quelli sludge e doom tradizionale è un difetto, ma qui è una questione di gusti.

Senza alcun dubbio il festival sarà andato sold out, e con tutta probabilità andrà avanti negli anni con altre edizioni, fino a diventare il secondo festival più importante nel genere, dopo il Roadburn.