DEEP IN HATE, Chronicles Of Oblivion
Il death metal dei Deep In Hate combina con grande efficacia brutalità e melodia. Accanto a riff secchi e perentori coesistono senza contrasto linee di basso aggressive e una batteria molto tecnica, quasi robotica. La linea di demarcazione tra il death metal melodico e il deathcore è molto labile, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto vocale, con l’alternanza pressoché continua tra un cantato gutturale e un urlato più stridente. All’inizio seguivano la scia di Dying Fetus e Beneath The Massacre, ora, invece, i Deep In Hate possono oggi annoverare tra le loro influenze Gojira, Whitechapel e The Black Dahlia Murder: complice l’assestamento della formazione, appare evidente infatti un approccio molto più innovativo, con un parziale accantonamento di strutture troppo intricate e progressive a favore di una maggiore valorizzazione delle singole canzoni, che risultano più sobrie e incentrate su un dosato equilibrio di pesantezza e armonia. “Genesis Of Void” è una traccia significativa del nuovo corso intrapreso dai ragazzi: insieme a plettrate secche e regolari, non lontane dagli ultimi Arch Enemy e dai seminali Fear Factory, sono l’andatura cadenzata – cupa, in alcuni frangenti – e gli inserti modernisti a comandare. La successiva “The Cattle Procession”, molto più ragionata, si muove su territori che lambiscono il brutal death tecnico, con un registro vocale ribassato efficace e intellegibile, mentre – al contrario – l’attacco di “Altars Of Lies” è un assalto in piena regola, per un pezzo dai pattern batteristici virtuosi, che in seguito non disdegna soluzioni melodiche. A proposito: l’abilità della formazione francese viene messa a dura prova anche nella maligna “The Unheard Prayers”, un vero concentrato di perizia strumentale con un nucleo di violenza pura. Se l’influenza thrash è palese nella perentoria “The Divide”, canzone che presto muta pelle e si velocizza in un procedere serrato, “Wingless Gods” è proprio la summa compositiva del gruppo francese: inizio sincopato, pausa centrale evocativa e rallentata, accelerazione improvvisa che sfuma in echi sinistri. La grumosa “Beyond”, posta a conclusione dell’album, suggerisce la via del cambiamento intrapresa dai Deep In Hate, con la transizione costante dalle consuete partiture death a schegge impazzite di melodia filtrata attraverso una sensibilità malinconica. Un album omogeneo e dalla grande forza propulsiva, ricco di potenzialità e privo di punti deboli, primo passo convincente per una band che non si pone limiti in termini di evoluzione.