Customize Consent Preferences

We use cookies to help you navigate efficiently and perform certain functions. You will find detailed information about all cookies under each consent category below.

The cookies that are categorized as "Necessary" are stored on your browser as they are essential for enabling the basic functionalities of the site. ... 

Always Active

Necessary cookies are required to enable the basic features of this site, such as providing secure log-in or adjusting your consent preferences. These cookies do not store any personally identifiable data.

No cookies to display.

Functional cookies help perform certain functionalities like sharing the content of the website on social media platforms, collecting feedback, and other third-party features.

No cookies to display.

Analytical cookies are used to understand how visitors interact with the website. These cookies help provide information on metrics such as the number of visitors, bounce rate, traffic source, etc.

No cookies to display.

Performance cookies are used to understand and analyze the key performance indexes of the website which helps in delivering a better user experience for the visitors.

No cookies to display.

Advertisement cookies are used to provide visitors with customized advertisements based on the pages you visited previously and to analyze the effectiveness of the ad campaigns.

No cookies to display.

DEDEKIND CUT, Tahoe

Lee Bannon ha dimostrato gusto per certe sonorità prettamente ambientali sin dagli esordi, quando ancora si faceva chiamare con il proprio nome e navigava tra hip hop, elettronica e drum’n’bass. Già il suo ultimo disco su Ninja Tune (Pattern Of Excel, 2015), prima dell’adozione del moniker Dedekind Cut, mostrava una decisa virata verso l’ambient tout court, anche se ancora “sporcato” dalle scorie ritmiche e dagli improvvisi slanci rumoristi che poi troveranno maggior definizione in $uccessor, uscito due anni fa per Non Worldwide. Una svolta che il producer statunitense non ha remore a chiamare “new age”, termine che definire problematico attualmente parrebbe un colossale eufemismo.

Per fortuna non stiamo parlando di flauti di Pan su di un tappeto di richiami di cetacei, anche se il richiamo al lago Tahoe nella Sierra Nevada contenuto nel titolo anticipa un certo appeal acquatico sempre presente nell’ovattato e placido flusso dell’oretta scarsa di quest’ultimo album. Là dove $uccessor metteva in scena una dinamica un tantino più agitata e, se vogliamo, conflittuale, tra tappeti di synth, registrazioni d’ambiente e scarti industrial, qui in Tahoe gli stessi elementi vengono adoperati in maniera più sobria e soffusa, procedendo apparentemente con estrema lentezza da abissi sottomarini in cui le forme sono offuscate e nell’ombra, emergendo in modo graduale mentre gli elementi si moltiplicano e attraversano il campo dell’ascoltatore calato nel ruolo di un ipotetico palombaro che viene tirato su. Le lunghe ondate ricorsive di synth dei primi minuti vengono via via solcate da cori para-angelici, canti armonici, tastiere quasi alla Vangelis, archi digitali, sporadiche scariche elettriche e scrosci d’acqua. Spettri sonori che, più che seguire un percorso delineato, galleggiano ora sopra, ora sotto il centro dell’attenzione. Esemplari in questo i nove minuti di “MMXIX” e i dodici minuti di “Hollow Earth”, in cui il quieto immobilismo si alterna a un caleidoscopio di accenni di visioni fantasmatiche.

E il tutto sarebbe stato molto più affascinante se l’acqua dell’ampolla in cui Bannon ci ha buttato fosse stata più limpida. Troppo prevedibili i momenti di calma, quanto frequenti i dubbi che il sound-design sia governato a volte dal caso e a volte da una visione che il producer forse ancora non riesce a focalizzare per bene. Per ogni minuto in cui pare di avere a che fare con una colonna sonora di un ipotetico remake di “Abyss” con Herzog al posto di Cameron, ce n’è un altro in cui molto più semplicemente ci si limita a nuotare nella noia.