DEAD NEANDERTHALS, Polaris
Tornano i Dead Neanderthals, alla caccia questa volta di un compromesso tra grind e jazz, generi finora sempre tritati assieme durante deliri “post-noise” (alla maniera degli Zu). Di fatto con Polaris viene intrapresa una strada più acustica, che porta a una specie di free jazz atipico come quello dei Mombu, sostituendo però le bolge math-rock tribali di questi ultimi con un vero (non me ne voglia il sig. Herzog) grido di pietra, proprio come quello che apre “Neck-AIDS”. Per tutto l’ascolto la faranno da padrone scelleratezze di sax zorniane, non un caso quindi se ci s’imbatte in una certa “Yamatsuka Eye”, che – strano a dirsi se si viene dai primi dischi ben più “punk” del duo olandese – è l’unica traccia a scendere sotto i sessanta secondi. A beneficiare maggiormente della – seppur parziale – svolta stilistica è la batteria, che con le sue prorompenti sassaiole (“The Pit” e “Plissken” su tutte) si rende protagonista dei quasi trenta minuti ininterrotti di Polaris. A confezionare questa chicca per tutti gli amanti delle cagnare sax/drum ci pensa Utech Records, che s’avvale di Lasse Marhaug al master: come nel recente caso di James Plotkin per A Water Which Does Not Wet Hands di Agarttha, è bello vedere come la vecchia guardia si sappia mettere a disposizione di artisti più “giovani” per conto di etichette ormai rodate e con un pedigree di titoli di tutto rispetto. L’ultima segnalazione è per la copertina, che porta la firma del fotografo italiano Alessandro Puccinelli.