DEAD JACK AND HIS DRY BONES, Telephone Call From Hell
La quarantena prolungata e il distanziamento sociale hanno costretto molti musicisti a trovare un modo per dar sfogo alla loro creatività. Con ogni probabilità a breve assisteremo ad un aumento di uscite di progetti solisti, di prodotti della reclusione forzata, magari qualcuno avrà affinato il proprio songwriting, qualcun altro infine memore di quel tale norvegese avrà deciso che il rock è una cosa sbagliata e si sarà reinventato compositore ambient. Tutto ovviamente sacrosanto e – nei casi più fortunati – in grado di aggiungere una tessera importante (perlomeno interessante) al quadro generale, neanche a dubitare della buona fede e della consapevolezza che questi siano stati mesi straordinari che andavano testimoniati anche da parte del mondo musicale. Altrettanto vero che si è spesso tentato di far fruttare al massimo quello che si aveva a disposizione, a tentar di camuffare come meglio si poteva la mancanza di strumentazione e apparecchiature professionali per registrare senza attendere mesi. Poi, c’è lui, Jack (The Bone Machine, Gozzilla & Le Tre Bambine Coi Baffi), qui con lo pseudonimo Dead Jack And His Dry Bones, che ha preso un ampli da 5 watt, qualche fusto, un telefonino e ha registrato un album che pare venire direttamente dagli anni Venti e dalle ruvide registrazioni del Delta Blues, che non ha alcuna raffinatezza compositiva o sonora e che, nelle stesse parole del suo autore, è “spazzatura” priva di ogni pretesa e semplice fotografia di un uomo solo in casa che si diverte con “secchi di vernice, bidoni dell’immondizia, pezzi di lamiera, strumenti a buon mercato”. La consapevolezza con cui ci si approccia ai propri mezzi di fortuna, l’onestà intellettuale di scoprire le carte in partenza e l’assenza di tentativi di ammantare il tutto con qualche presunta speculazione sono di per sé motivi validi per aspettarsi un qualcosa di divertente ma allo stesso tempo trascurabile, una sorta di gioco tra amici cui si fa ascoltare qualche gag tanto per passare una serata. La realtà, al contrario, è che Telephone Call From Hell risulta un disco irresistibile (pur) nella sua mancanza totale di rifiniture o formalismi, ha una scrittura coinvolgente che colpisce chiunque sappia superare la cruda esperienza uditiva per tuffarsi nelle onde di queste dieci canzoni, un cocktail a base di John Lee Hooker, Tom Waits, Cramps, Beast Of Bourbon e Devo, ma senza alcuna pretesa di scomodare nomi così importanti, perché si finirebbe per snaturare il tutto e ammantarlo di pretese mai cercate. I pezzi ci sono e si imprimono subito in mente, la scrittura è quella rodata e sicura di chi con certi suoni c’è cresciuto e ormai li ha metabolizzati e rimasticati a dovere, la registrazione “garibaldina” evidenzia anziché nascondere la natura intima di queste ballate frutto della quarantena, in breve tutto gira a dovere e ribalta il pronostico. La cosa buffa è che arrivati a fine disco si viene presi dalla voglia di riascoltarlo e ci si rende conto di come ogni dubbio iniziale sia stato spazzato via dalla consapevolezza che questa è con buona approssimazione la fotografia più esatta e a fuoco degli ultimi mesi e di tutte le ansie, paure e crolli psicotici che hanno portato in dote. Un aprire le gabbie per far uscire le scimmie dispettose mascherate da demoni che albergano nella maggior parte di noi e che, sua e nostra fortuna, Jack ha saputo incanalare in questa telefonata dall’Inferno. Tutto qui, ma è un tutto che ci ha colpito e merita anche la vostra attenzione, almeno se certe sonorità riescono a stuzzicare le vostre antenne.