Dead Elephant is dead
Queste le parole apparse sulla pagina dei Dead Elephant per annunciare la fine del progetto, almeno per come eravamo abituati a conoscerlo nel corso degli anni, fin dal 2005 e dal nostro primo incontro grazie a Sing The Separation, inizialmente autoprodotto e in seguito ristampato dalla Unfortunate Miracle Records (un nome che incontreremo nuovamente proprio alla fine di questo pezzo).
In realtà, la vera scintilla dell’amore per i Dead Elephant è scattata un paio di anni dopo, grazie a quel Lowest Shared Descent prodotto da alcune etichette da sempre nel nostro mirino e capaci di individuare le realtà più interessanti di casa nostra, quel sottobosco che al tempo si rifletteva nell’operato della cosiddetta “diy conspiracy” e innescava una piccola rivoluzione in fatto di suoni e contaminazioni di estrazione hardcore. Realtà unite dalle stesse radici ma ormai volte a smantellare luoghi comuni e barriere linguistiche per plasmare qualcosa di completamente differente da sé. Proprio Lowest Shared Descent, insieme ad altri lavori ormai diventati punti di riferimento per le nuove leve, ha posto le basi per un linguaggio contaminato che parte dal noise della New York anni Novanta per piegare l’hardcore e creare un mostro a più teste, parte marciume sludge, parte spinta all’esplorazione psichedelica, con tanto di Luca Mai degli Zu ed Eugene Robinson degli Oxbow a fornire piccoli cammei e ulteriori coordinate su cui muoversi. Poco da obbiettare su un lavoro che unisce i puntini di tutto ciò che ha segnato gli ascolti della frangia più illuminata di estremisti del periodo e che non può mancare nella collezione di chiunque oggi voglia comprendere da dove deriva gran parte delle nuove contaminazioni in campo estremo (si pensi solo alla spinta ambient/noise di “Abyss Heart”). Seppure certi innesti fossero già nell’aria, è indubbio come almeno nel nostro Paese parte del merito di averli resi patrimonio comune spetti ai Dead Elephant.
Con un simile biglietto di presentazione era inevitabile per la band dover fare i conti con aspettative e pronostici, quasi si temesse che la spinta iniziale potesse essersi persa o in parte stemperata. A smentire tutti, scartando a lato e andando ancora più in profondità, arriva Thanatology, uno studio sulla morte che affonda nel marciume della terra in decomposizione e prende allo stomaco l’ascoltatore con salmi, sprazzi di rumore tagliente, ombre doom e aperture orchestrali ad aggiungere ancora atmosfera ad un lavoro tanto pesante quanto ricco per dettagli e sfumature, curato oltre ogni dire e mai chiuso in una mera ricerca estetica. Di certo i Dead Elephant sono cambiati, come dicevamo appaiono più radicali, se mai siano stati concilianti, sicuramente il tempo trascorso tra le due prove non ha lenito le ferite ma le ha mutate in un dolore sordo, quasi una cancrena che rende gravose e dolenti le note estratte dagli strumenti. Più che un semplice disco, Thanatology assume le forme di un viaggio iniziatico, un percorso di catarsi che pretende dall’ascoltatore un’immersione completa, un fare i conti con i propri fantasmi per mettere in discussione certezze e punti fermi. Se la paura era quella di un Lowest Shared Descent parte due, il nuovo album della formazione fa il giro completo e cambia ogni singola prospettiva, tanto da uscire quasi completamente dal radar del noise/postcore per tuffarsi in un’altra visione dell’estremismo sonoro, non fosse per quel riff che apre “Destrudo” e che tira per i calzoni papà Chris Spencer a ristabilire in parte l’ordine naturale delle cose.
Tra le ultime cose lasciateci dall’elefante prima di isolarsi per morire è lo split coi Rabbits che compare sulla raccolta di singoli dell’irlandese Hell Comes Home, una follia in dodici 7” in cui affondano i propri piedi nomi quali Fistula, Thou, Pyramido, The Fucking Wrath, Dukatalon e chi più ne ha più ne metta. Ancora una volta sono nove minuti imprevedibili, con una partenza a razzo e un’improvvisa quanto brusca fermata nel territorio della pura sperimentazione, con un battito a scandire il crescendo con cui il brano si chiude in modo esplosivo. Sarebbe stato un ottimo modo di salutare, un canto con coda di feedback e scariche di corrente da jack che si stacca. Eppure, anche questo sarebbe risultato prevedibile e in qualche modo fuori dal modus operandi cui i Dead Elephant ci hanno da sempre abituato. Ecco, quindi, la vera chiusura del cerchio, neanche tre minuti di tributo ai texani Cherubs, un ritorno allo sferragliare molesto del punk e alla concretezza urbana del noise, con esplosioni di rumore bianco e urla belluine… quale modo migliore per prendere ancora una volta tutti di sorpresa e ribadire da dove tutto è nato e dove (forse) ritornerà? Oggi i Dead Elephant hanno deciso di cambiare nome e lasciare andare la vecchia creatura, quali saranno le nuove rotte da percorrere e dove ci porteranno non si può proprio sapere, il che – se siete arrivati fino a qui – non dovrebbe certo stupirvi.