DEAD CROSS, II
Dead Cross è il nome della band formata da quattro illustri musicisti con una storia tanto ricca alle spalle da poter riempire da soli un manuale dell’estremismo sonoro dagli anni Ottanta ad oggi, parliamo ovviamente di Mike Patton, Dave Lombardo, Michael Crain e Justin Pearson. I quattro avevano già colpito l’interesse degli ascoltatori con un album omonimo nel 2017 e un ep l’anno successivo, questo prima che la grave malattia di Crain e le conseguenti cure debilitanti (leggasi chemio), la pandemia e varie vicissitudini di contorno li costringessero a una giostra di emozioni che troviamo lungo i solchi di questo secondo disco.
Invece di fermarsi, il chitarrista ha infatti continuato a comporre e registrare insieme ai suoi compagni di avventura e ne ha tratto energia catartica in uno scambio reciproco tra vita reale e musica dal quale è nato il ritorno sulle scene dei Dead Cross, un diario di bordo e un grido liberatorio che non ha nulla da invidiare al primo capitolo. Sin dall’apertura “Love Without Love” appare, infatti, chiaro come II sia un concentrato di tutti gli elementi di forza dei suoi autori, con il suo incedere al contempo sghembo e anthemico, potente e diretto sebbene proceda con un’andatura a zig zag che scarta improvvisamente di lato oppure esplode in linee melodiche di grande impatto ad accogliere un caldo raggio di luce nella scrittura. L’impressione è che la band si sia gettata a capofitto in un processo creativo che ha saputo sostituire l’iniziale voglia di sperimentare divertendosi tra amici con la pulsione a canalizzare le immagini della vita reale dei quattro, tra frustrazione e voglia di riscatto, istanze sociali (la critica aperta all’amore per armi e religione dei loro compatrioti) e malessere interiore, fino a trovare una liberazione che assomiglia tanto allo spurgare il male sotto forma di brani a cavallo tra metal, punk, noise e quella vena sperimentale da sempre loro cara. Così il disco si presenta come il risultato della somma tra le parti ma anche come qualcosa di ulteriore e potenziato, in qualche modo vicino alla sensibilità dei primi Mr. Bungle, dai quali mutua una vena schizofrenica e anarchica seppur soggetta a una profonda disciplina interna. La voce di Patton guida le danze, con il supporto di Pearson, perfetto sparring partner, e si stende su una sezione ritmica che vanta ben pochi rivali al mondo, ma è la chitarra di Crain a rubare spesso la scena con il suo continuo capovolgere il fronte e il passare da riff metal a sprazzi di follia noise, in una girandola scoppiettante che trascina in un vortice di note e accordi poliedrici. Come detto, c’è del metodo nella follia e i Dead Cross non si fanno mancare anche una vena quasi pop (figlia dell’istrionismo di un Patton in gran spolvero) nei cori, così da permettere alle canzoni di fissarsi in mente e lasciare il segno senza sconfinare mai nel caos puro. Come sa bene chi mi segue, non soffro di sindrome di Stoccolma per i grossi nomi e solitamente preferisco parlare di realtà meno sotto i riflettori, tanto meno sono un amante dei supergruppi fini a sé stessi o un completista di tutte le incarnazioni di Patton, eppure questa volta non posso esimermi dal consigliare i Dead Cross e il loro ritorno, certo di avere a che fare con un disco meritevole di attenzione oltre ogni lecito dubbio, almeno se la cifra stilistica dei quattro signori coinvolti rientra nella vostra dieta.