Dalila Kayros: il mistero della voce è come un drago a più teste
«La pandemia ha aperto un’altra porta, se non fosse arrivata forse sarei rimasta chiusa nel mio guscio invece ne abbiamo approfittato al massimo e abbiamo realizzato il disco». Così Dalila Kayros racconta il processo che ha portato ad ANIMAMI, il suo ultimo album che segna il debutto su Subsound Records. La musicista e cantante sarda, in collaborazione con Danilo Casti, si è addentrata in territori oscuri e indefiniti, rifiutando di aderire a modelli preconfezionati ma facendo del processo di ricerca il suo faro. È un’elettronica destrutturata, quella di ANIMAMI, che non fa concessioni ad alcuno stilema facilmente identificabile. C’è la richiesta di intraprendere un viaggio, un salto nella comprensione, abbandonando il già noto e facendosi guidare dalla voce melodiosa e ed espressiva di Dalila.
Presentando il disco parli di un percorso che hai intrapreso personalmente, un’esplorazione dell’interiorità. Ha coinciso con le chiusure dovute alla pandemia?
Dalila Kayros: È stato un periodo per me molto complesso a livello emotivo, iniziato un po’ prima della pandemia. Non riuscivo più a capire nulla di me. Quasi ogni giorno passeggiavo per le campagne vicino casa mia, dove scorre un fiume, è un’area in stato di abbandono con una natura violentata. Facevo queste lunghissime camminate in cui parlavo con le mie ombre, con i lati di me forse anche odiosi. Cercavo di capire cosa volessero dirmi, da dove venissero, dove fossero diretti. Il sintomo è un simbolo che ci racconta qualcosa di noi e del mondo che ci circonda, quindi cercavo di cogliere il suo significato. Mi portavo il materiale per scrivere e iniziavo a prendere appunti, ne sono scaturiti dei testi particolari perché sono quasi dei flussi di coscienza. Alcuni di questi sono in Animami, è forse l’ombra che sono riuscita a comprendere. Gli altri su cui devo ancora lavorare faranno parte del prossimo disco.
Ci eravamo lasciati quattro anni fa con l’album TRANSMUTATIONS [I] yin side, potremmo affermare che hai deciso di sostare ancora nella parte oscura, elaborandola in un altro modo? La ragione per cui non hai affrontato lo Yang è legata al tuo vissuto?
Tratterò lo Yang nel prossimo disco, sarà un lavoro più caustico che riprenderà alcuni elementi del mio primo disco NUHK, che era più graffiante a livello di sonorità. Vorrei reintrodurre questo aspetto perché mi appartiene. Con questi due lavori c’è stato un distacco dal familiare, volevo capire il funzionamento della “altra parte”, era un lato che non avevo mai espresso. Ma ora vorrei che i due lati convivessero in una mescolanza di sonorità estreme e delicate.
Come avete lavorato sulla musica di Animami insieme a Danilo Casti?
Prima si è sviluppato il concept e le linee vocali, poi abbiamo composto le canzoni sia insieme che separatamente. È una collaborazione a 360 gradi, anche Danilo si è rapportato a quel flusso di coscienza e alcuni brani come “Yonder” e “Sacred” sono interamente suoi, io sono poi entrata in gioco per la voce, gli arrangiamenti e tutti il lavoro sulla narrazione. Altri invece li ho composti io come “Animami” e “Umbra”, o altri ancora come “Breath” li abbiamo fatti insieme.
La voce rimane al centro del tuo progetto, continui a lavorarci o ormai hai acquisito le competenze di cui hai bisogno?
Per ogni disco c’è un lavoro sulla voce già a partire dal concept, nel senso che la plasmo a seconda di quello che l’album ha necessità di esprimere. In Trasmutations, ad esempio, ho cercato una sonorità della voce più soft, più rotonda, che prima avevo solo nel parlato, ma era molto distante dal mio modo di cantare. Vorrei che la vocalità non fosse qualcosa di standard, sempre uguale a sé stessa, ma al contrario che si trasformi ogni volta. Così acquisisco sempre nuove tecniche e nuove timbriche. A volte mi chiedo qual è il mio timbro caratteristico e alla fine mi rispondo che lo sono tutti quelli che possiedo, come un drago con tante teste. Mi sento alla continua ricerca, l’obiettivo è di esplorare il suono come se fosse un mondo.
Hai evocato la figura del drago, presente già nel disco precedente. Che caratteristiche ha?
In Trasmutations era un drago bianco che si vedeva in lontananza, come una sorta di visione. In questo caso invece ho voluto provare a entrare nella sua caverna. Per me simboleggia l’inconscio, tutto ciò che ci guida al di fuori dalla nostra consapevolezza. Il drago siamo noi stessi e noi stesse, ma è una parte che non abbiamo ancora scoperto e può essere anche doloroso aprire quella porta. Rappresenta anche ciò che siamo in potenza oppure parti di noi che dobbiamo abbandonare, i nostri demoni da affrontare. La vedo come una figura fondamentale per l’evoluzione personale.
Nel testo di presentazione del disco citavi Jung, ci sono tanti aspetti del suo pensiero che ritornano nelle tue parole.
Mentre componevo il disco leggevo Il libro rosso, che mi ha cambiata profondamente. Sono riuscita a affrontare quel percorso con positività proprio grazie a quella lettura, in cui ho trovato delle chiavi importanti che non mi hanno fatto sentire sola. Bisogna avere anche il tempo di intraprendere questa esplorazione, spesso gli impegni quotidiani ci spingono a rimandare, ma poi la vita ci inchioda alla necessità di affrontarla.
Abiti in provincia di Cagliari, quanto è difficile per voi musicisti indipendenti rispetto a chi vive nelle grandi città italiane?
Prima della pandemia c’erano tante realtà con del fermento, era una bella scena proporzionata alla grandezza di Cagliari. Sicuramente il confronto con l’esterno è minore, bisogna spostarsi spesso perché molte band non passano da qui. Se non si ha questa possibilità, è sicuramente un punto a sfavore. Purtroppo dopo il covid molte situazioni non ci sono più, ne stanno nascendo di nuove ma ci vuole ancora tempo.
I video sono una parte importante del tuo progetto, sono sempre molto curati come anche quelli estratti da Animami. Dove li avete girati?
“Animami” e “Abyss” sono girati in un luogo in totale abbandono nel Sulcis, una località dell’ovest dove una volta c’erano le miniere. C’è questo paesaggio con la terra rossa che adoro, e non è battuto dai turisti. Mi piace che i significati dei video rimangano enigmatici, vorrei che chi li guarda si possa connettere a modo suo con il proprio drago. Sarebbe bello poi conoscere le loro interpretazioni, “Abyss” ad esempio è un puzzle non lineare con un approccio onirico, perché tutto il senso del disco rimanda in fondo a un sogno lucido. Oltre a me e Danilo è fondamentale Sofia Usai che cura il mio make up negli artwork e nei video, insieme a lei creiamo questi mondi visivi fantastici.
Quest’anno è uscito anche il nuovo disco dei Syk, come sta procedendo quel percorso?
È tutto molto diverso perché ai testi lavora Stefano, il chitarrista; io chiaramente mi concentro sulla parte vocale. Abbiamo deciso per la prima volta di usare la voce pulita in tutti i brani, il mio percorso si è forse riflesso anche nei Syk. Molti lo hanno trovato bizzarro, e in parte lo è, considerato il genere di riferimento. Per me è stata la maniera più naturale di cantare quei brani, penso che abbiamo fatto musica onesta.