Dagger Moth: questa materia oscura
Sono passati velocemente un bel po’ di anni dal 2016 di Silk Around The Marrow, secondo album di Dagger Moth, il progetto da solista di Sara Ardizzoni, dopo l’esordio omonimo del 2013. Nel mezzo, c’è stata una pandemia ma anche un sacco di attività da parte della one-woman band e musicista ferrarese, dalle numerose collaborazioni di peso – da Cesare Basile & Caminanti ai Massimo Volume – sino al bel singolo “Unleashed” del 2021. È lei a raccontarci tutto: Sei anni così densi sono volati ma sono anche stati un’eternità, alcune cose sono cambiate e altre sono rimaste immobili. Ammetto che il passare del tempo mi crea una notevole ansia, mi fa scalpitare e aumenta la voglia di mettermi in gioco. Le collaborazioni degli ultimi anni mi hanno di sicuro fatto crescere musicalmente e umanamente, riuscire a inserirmi anche in contesti che ritenevo lontani dalla mia comfort zone mi ha trasmesso una nuova consapevolezza… Il bello è proprio scavalcare i confini che ci diamo da soli. Vorrei mettere sempre nuova carne al fuoco, peccato avere solo 24 ore a disposizione nell’arco di una giornata.
Il nuovo album The Sun Is A Violent Place, il suo migliore a oggi, è nato proprio nel 2020, durante il lockdown, e composto, arrangiato, registrato e prodotto da Ardizzoni in completa autonomia, destreggiandosi tra voce, inseparabile chitarra e macchinari, tra le pareti della propria abitazione. Sono convinta che bisogni fare di necessità virtù… In questo caso specifico, poi, come tanti, mi sono ritrovata a fare una vita molto stanziale. Avevo accumulato disordinatamente delle bozze ma non trovavo mai il tempo di svilupparle, quindi l’isolamento forzato mi ha dato l’opportunità di buttarmici a capofitto. La sospensione surreale di quel periodo è stata utile per provare a lavorare su un nuovo immaginario sonoro, consciamente o meno ho cristallizzato una serie di sensazioni specifiche di quel contesto storico (ma purtroppo ancora attuali): attesa, incredulità, paralisi, inquietudine. Poter affondare nella mia bolla musicale mi è stato utile per affrontare mesi di grandi incertezze. Oltre al master di Alessandro Gengy Di Guglielmo e del supporto all’editing di Samuele Grandi, l’unico contributo esterno è quello di Victor Van Vugt (Nick Cave & The Bad Seeds, PJ Harvey, Beth Orton), responsabile dei mix. L’incontro con Victor è stato del tutto casuale. Lui è australiano ma vive a Berlino e là abbiamo un’amica comune, Marta Collica. Lei sapeva che stavo cercando di finalizzare i mix e ci ha messi in contatto. È rimasto un incontro virtuale, visto che, tra Covid, chiusure e rispettivi impegni, siamo riusciti a procedere soltanto a distanza. Victor è stato molto professionale, meticoloso e rispettoso delle mie idee, anche perché mi sono presentata con un disco già piuttosto strutturato in termini di arrangiamenti e suoni, ma è riuscito a migliorarne pasta sonora e impatto senza snaturare il mio lavoro.
In confronto ai capitoli precedenti, il sound del disco si rivela ancora più stratificato, galleggiante tra alt-rock sperimentale ed elettronica. Ne è un esempio “Automatic Dream Glow”, cangiante sfavillio tra veglia e visione che, se con le parole esprime al meglio le scissioni di mood dell’isolamento di emergenza di cui sopra (I need someone / I need no one), con le note naviga invece in direzione di un’elegante ricerca strumentale che, pur variando gli ingredienti in atto, può ricordare il rigenerante estro ambient della violoncellista Colleen in Captain Of None. Rispetto ai dischi precedenti, per certi versi, ho cercato di essere più libera, pur sapendo che i brani live avrebbero dovuto adattarsi a un contesto da solista. Dal vivo utilizzo una loop station ma mi piace cercare di portare un po’ al limite le possibilità di questi macchinari, per evitare uno stile compositivo che sia il solito “layer su layer”. Credo però che la differenza reale sul piano sonoro l’abbia fatta l’aver deciso di registrare da sola a casa le take definitive, lavorando a rough mix, produzione, effettistica… Non avere tutte le limitazioni che registrare in studio comporta a livello di tempo e spese mi ha lasciato la possibilità di provare, sbagliare, cestinare, rifare, imparare, definire meglio i dettagli… In sede creativa sono lenta, purtroppo se non mi ponessi delle deadline potrei portare avanti il processo all’infinito, cerco qualcosa e sto lì finché non l’ho trovata.
“Automatic Dream Glow”, peraltro, è uno degli episodi maggiormente connotati dall’utilizzo dell’elettronica ed è seguito in scaletta da “Slow Motion Collapse”, dove i bpm si fanno via via sempre più sostenuti, anzi incalzanti come mai prima d’ora. La dimensione elettronica è d’altronde molto presente in tutti i brani, compreso il robotico “Be Like Water”, degno dei recenti viaggi sci-fi del Soundwalk Collective. La dimensione elettronica, essendo un campo in cui non mi ritengo tecnicamente troppo ferrata, lascia molto spazio al caso ed è un bene perché mi evita di diventare schiava di certi pattern o automatismi che invece ho sviluppato sulle sei corde. Mi interessa innanzitutto l’interazione fra chitarra ed elettronica: in molti punti ci sono chitarre che suonano come synth, ma in genere sono due mondi che per convivere in maniera efficace e fluida portano sempre a nuove sfide. Non voglio che l’elettronica suoni come una mera “base” né che le chitarre perdano totalmente la loro identità diventando super processate… e fra questi due estremi c’è una terra di mezzo interessante da esplorare. Ardizzoni, che si auto-definisce trasversale chitarrista (per scelta) e cantante (per caso), è infatti innanzitutto un’eccezionale chitarrista, apprezzata anche oltreconfine e oltreoceano. Per pura affinità nella modernità dell’approccio, ci viene in mente un potenziale parallelo con Noveller (Sarah Lipstate). Non so perché ma la chitarra è uno strumento che continua ad affascinarmi, ne vedo sempre possibilità infinite… Non ho mai seguito troppo da vicino il lavoro di Sarah Lipstate ma trovo che abbia un gran bel gusto per effettistica e soundscape, non banale… e ha una collezione invidiabile di pedali! Quello con la chitarra è un rapporto a tratti ossessivo, a tratti taumaturgico, ma sempre teso alla scoperta. E soprattutto la chitarra è un’ottima compagna per migliorare la vita, ogni giorno.
È successo che tutti, in pratica, si sono finalmente accorti dello stile chitarristico sempre più personale di Ardizzoni, per collegarsi alle collaborazioni alle quali accennavamo sin dal principio e alle quali nel novembre 2021 si è aggiunta anche quella prestigiosissima, dal vivo, con la Fire! Orchestra di Mats Gustafsson: Senza mezzi termini, quella con la Fire! Orchestra è stata un’esperienza splendida. A livello umano, artistico e professionale. Anche perché sono stata reclutata inaspettatamente e mi sono lanciata senza rete in un contesto che non era il mio: conduction, improvvisazione, free jazz – per usare etichette banali – erano ambiti a cui mi avvicinavo direttamente per la prima volta, e quale migliore occasione che farlo magari in un teatro pieno, insieme a musicisti che sostanzialmente non conoscevo? È stato liberatorio. Spero che ci sarà un seguito… Uno dei talenti alle sei corde di Ardizzoni è anche quello di sapersi rendere funzionale agli altrui contesti sonori – ne è stata una dimostrazione, dal 2018, la partecipazione al tour dei Massimo Volume a supporto de Il Nuotatore, a intrecciare linee elettriche post-tutto al fianco di Egle Sommacal. Con i Massimo Volume siamo abbastanza in stand-by, perché ognuno sta seguendo progetti paralleli. Fermo restando che il motore trainante sono loro tre (Sommacal con Clementi e Burattini, ovviamente, ndr), se mi verrà chiesto di collaborare a nuovi lavori ne sarò ben felice, ma sono anche consapevole di essermi inserita in una fase particolare e per lo più come turnista live. Le chitarre de Il Nuotatore erano state composte e incise da Egle e, per i concerti, è poi stata mia premura eseguire le parti più fedelmente possibile: stessi fraseggi con stessi effetti e stessi settaggi. Per quanto riguarda invece i brani del vecchio repertorio, ho trascritto a orecchio le parti di Stefano Pilia.
Chitarrista (per scelta) e cantante (per caso), dicevamo. Impossibile allora non domandarsi come sia nel frattempo progredito il rapporto con il microfono e quindi anche con i testi. Con la voce non ho mai avuto un buon rapporto, per vari motivi… Non ci ho mai lavorato davvero né ho preso lezioni di canto, quindi sento di padroneggiarla poco. Altro fattore che, stupidamente, mi ha spesso frenata, specie in gioventù, è il fatto di essere associata al cliché della “cantante” o primadonna in generale. Era un ruolo che non m’interessava. Magari nelle varie band in cui ho militato suonavo più che cantare (Pazi Mine, tra le altre, ndr), componevo i brani ma, dato che spesso ero l’unica ragazza, automaticamente venivo etichettata come “la cantante”, cosa che a mio avviso sminuiva un po’ tutto il resto. Ho sempre odiato essere imbrigliata in facili stereotipi, quindi l’ho presa un po’ di petto, ecco. Scelta ottusa, perché la voce è prima di tutto un mezzo espressivo potentissimo. Chiusa fra le mura di casa, per le registrazioni delle linee vocali di questo album, invece, ammetto che mi sono divertita, ho esplorato più del solito, qua e là ho deviato la voce verso il rumore; la solitudine e il non avere il fiato sul collo hanno giovato alla creatività. Le parole hanno di certo fissato le sensazioni nell’aria, in quel particolare periodo.
Le otto tracce di The Sun Is A Violent Place sono temerarie nel farsi avvolgenti, ritmiche o di rottura, cupe o squarciate da bagliori di luce a seconda dell’inquietudine del momento, all’interno del disco ma anche in relazione a quello storico appunto, eppure mantenendosi estremamente lucide nel giustapporre tutto assieme. Con la “forma-canzone” mi piace avere un rapporto creativo, cioè mi piace dilatarla, scomporla, giocare con inserti strumentali o noise, ma non ho un vero e proprio metodo. A volte lo spunto è un riff di chitarra, a volte un sample ritmico o il suono di un synth, persino un particolare effetto può far scaturire l’idea per un intero brano. Devo dire che invece molto raramente parto da una linea di voce o da un testo. Parlando di reali influenze più o meno dirette: Ascolto molto BBC Radio 6 Music e mi capita spesso di intercettare artisti che non conosco. Ben lontani dall’essere nuove scoperte, alcuni nomi che mi hanno accompagnata nella stesura dell’album sono la prima FKA twigs, la sempre geniale Laurie Anderson, Simon Fisher Turner, Lorn, Coil, Mica Levi, Sonny Sharrock, Oneohtrix Point Never, dischi come État di Daniel Wohl ed Existential Reckoning dei Puscifer, e molti artisti che magari con il mio sound non c’entrano decisamente nulla, come Billy Nomates e Sleaford Mods.
La prima canzone rivelata in pubblico, a settembre, è stata la cinematica “Church Without God”, che vede anche il coinvolgimento di Fabrizio Baioni ai beat ed è indicata da Ardizzoni stessa come una delle sue preferite: forse perché è stata una delle prime a cui ho dato una forma definitiva, o forse perché mi riporta subito ai giorni, non proprio sereni, in cui l’ho scritta. Il singolo è stato resto disponibile su Bandcamp e sul sito ufficiale dell’artista ma, proprio come l’intero album in uscita il 3 ottobre, non si troverà su tutte le altre piattaforme di streaming. Noi la definiremmo una precisa scelta di campo – e questo campo è punk. Beh, musicalmente sono lontana dagli stilemi del punk, ma come indole nel fare le cose forse sono più punk di molti gruppi punk. Diciamo che ho un imprinting di matrice fugaziana. A prescindere da categorizzazione varie, le motivazioni che mi hanno spinta a evitare certe dinamiche, ad esempio l’upload su Spotify, a grandi linee sono riconducibili a due piani. Uno più etico: non mi piace la loro politica, né come trattano gli artisti, né il fatto che ormai sembra diventata una tappa obbligata senza la quale si è “inesistenti”; non mi interessa pagare per finire nelle playlist di qualcuno… e poi ci sarebbero mille argomenti da approfondire, come gli investimenti che fanno con i profitti, eccetera. L’altro più pratico: per quello che faccio e per il mio tipo di pubblico, non credo che mi sia utile. Il mio disco precedente è su Spotify, per via di un contratto di distribuzione digitale, ma non ho mai notato ricadute positive, né in termini di nuovi supporter acquisiti o di proposte, di ingaggi o collaborazioni, e stendo un velo pietoso sui guadagni. Non lo uso nemmeno da ascoltatrice. Sono una musicista di nicchia e una delle cose positive di essere un cane sciolto è la libertà di muovermi come voglio, con la possibilità di evitare quelli che ormai sono considerati percorsi standard, magari inventandone di miei, tanto non ho nulla da perdere. Una volta che una canzone viene lasciata libera può prendere le strade più inaspettate, ed è anche per questo che si fanno i dischi.
Le strade che prendono queste canzoni sono segnate dai riff liquidi e dagli stranianti trattamenti vocali della per lo più immaginifica “Afloat”, dalle imponenti progressioni digitali via via rumoriste di “Minefield” o dalla darkness della conclusiva “Time Blind”. Senza dimenticare “Days To Ungle”, che fonde linee elettriche e sintetiche, a confondersi le une con le altre, in un’unica alta marea ipnotica. Di “Days To Unglue” ho un ricordo molto preciso di quando l’ho abbozzata, in pieno primo lockdown 2020, sul mio terrazzo… Non per fare poesia spicciola ma quell’odore vivace che si percepisce con l’avvicinarsi della primavera contrastava con il cielo plumbeo e con il silenzio opprimente delle strade deserte, rotto solo dal brusio di alcuni stormi di uccelli. Era una suggestione che mi si è impressa nella mente, chissà perché. A proposito di suggestioni, guardando l’immagine di copertina, dove Dagger Moth volteggia sotto le sembianze di sirena o minacciosa medusa sulla riva di una spiaggia, viene spontaneo connettersi alle già citate “Afloat” e “Be Like Water”, contrapposte però in qualche modo alle vampe richiamate dal titolo The Sun Is A Violent Place. Se questo album fosse un elemento, sarebbe allora acqua o il fuoco riflesso di un sole abbagliante? Nel periodo di composizione dell’album ero, come tutti, chiusa in un guscio protettivo ma alienante. Entrambi gli elementi possedevano una connotazione “inarrivabile”, perché non si poteva averne esperienza piena e diretta: il sole era solo quello che filtrava dalle finestre, l’acqua in cui tuffarsi era lontana. Entrambi evocano sospensione, ma anche calma piatta tanto quanto forza dirompente. Il titolo The Sun Is A Violent Place deriva da alcuni articoli e documentari sull’attività solare, poiché coltivo una grande curiosità per le tematiche astronomiche. È un dualismo che trovo affascinante: qualcosa di terribilmente violento consente la nostra vita qui e ora, qualcosa che ci sembra immobile e scontata è in continua eruzione e piena di mistero.