CROWN, The End Of All Things
Qui stiamo ascoltando un album a metà strada tra Depeche Mode e Nine Inch Nails, cantato à la Zeromancer. I Crown sono francesi, hanno basso, chitarre, voce e drum machine, assetto che all’inizio ha portato a paragoni legittimi coi Godflesh e – visto che hanno iniziato nel 2013 – con vari gruppi postmetal: se avessi ascoltato il loro esordio Psychurgy in quel periodo, non avrei saputo descriverli in un modo più brillante. Chiaramente i tocchi elettronici del passato e le collaborazioni extra-Crown del chitarrista David Husser (anche col genio Alan Wilder, pare) devono aver aperto la strada a questo disco, col quale la band non piazza sempre davanti le chitarre, mette gli accenti sulla sezione ritmica e la componente “sintetica”, riportandoci ai tempi in cui Host dei Paradise Lost aveva fatto incazzare mezzo mondo, con l’altra metà che invece parlava di “evoluzione”. Non so ancora quale sia la verità, ma mi pare chiaro che la presenza di macchine nel metal non sia una novità, non sia la discriminante per capire se un disco è “furbo”, così come la contaminazione non sia né il Male né il Bene, ma banalmente una scelta. Questo dei Crown è un album pop (oggi una cosa come questa è pop) per ascoltatori passati attraverso certi anni Novanta. Per questo sarei curioso di leggere il parere di qualcuno appartenente a una generazione successiva, anziché alla mia. Ci sono dieci tracce: tutte rielaborano le intuizioni dei nomi menzionati nel corso del pezzo e – buona notizia – tutte potrebbero essere delle loro hit minori. Alla fine appare anche Karin Park, che a breve ascolteremo in un disco con Lustmord e che è una sorta di Karin Dreijer (entrambe, del resto, son nate nella seconda metà degli anni Settanta, dunque sempre lì siamo), anche se mi sento davvero una merda a fare queste precisazioni, visto che ha sei album all’attivo, è entrata in tutte le classifiche e suona pure negli Årabrot. Nulla da dire, ma non credete a chi ve li vende come degli avanguardisti.