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CRIPPLED BLACK PHOENIX, Bronze

Justin Greaves (Iron Monkey, Electric Wizard, Teeth Of Lions Rule The Divine…) e Karl Demata hanno separato le loro strade nel 2015, con tanto di strascico legale per i diritti relative al nome del gruppo, inevitabile quindi la curiosità di scoprire quale sarebbero state le ripercussioni di questa doloroso e importante divorzio sulla scrittura di una formazione tanto acclamata e finora capace di attirare lo sguardo di critica e pubblico. Chiariamo subito che i Crippled Black Phoenix hanno arricchito ancora la loro tavolozza pur senza snaturare troppo il loro percorso, un tragitto che li ha portati lontano dagli esordi e ha saputo tracciare una costante linea evolutiva. Con Bronze, però, sembrano aver dato un ulteriore colpo di reni, realizzando un album di transizione in cui si mostrano impegnati a esplorare innumerevoli vie di fuga e lasciano infiltrare una serie di input esterni all’interno di un amalgama che nel corso degli anni aveva già dato non pochi grattacapi a chiunque avesse tentato di coniare un’etichetta ficcante. Ma cosa troverà l’ascoltatore all’interno di questa nuova fatica? Di certo le già incontrate aperture pinkfloydiane, il tratto folk che a tratti sembra strizzare l’occhio alla West Coast, a tratti al Sud degli States (sarà l’idea di formazione allargata con i molti guest convocati, quasi da grande famiglia…), l’amore per l’approccio prog, i suggestivi crescendo e un sottile retrogusto classic rock. Più in generale, si avverte forte il voler alterare gli equilibri in modo differente in ogni brano, a spingere e mettere sotto i riflettori ora questo, ora quell’altro elemento. Una volta avremmo parlato di un “mischione”, termine non necessariamente negativo e capace di contenere tutti i pro e i contro di Bronze, album che sarebbe sbagliato sottovalutare o snobbare come opera non all’altezza, perché i Crippled Black Phoenix hanno saputo inserire una sana dose di energia in molti dei brani, hanno spezzato alcune catene che li appesantivano e – grazie al richiamo diretto all’immaginario post-rock (Mogwai in testa) – hanno saputo aprire degli squarci nel velo etereo che spesso ne pervadeva gli umori. Ora devono solo comprendere come affinare le armi e gettarsi senza paura in un nuovo corso che potrebbe aprire differenti scenari.

Nonostante qui ci siano tutti gli elementi che hanno fatto apprezzare questa grande band nel corso dei suoi dodici anni di esistenza, sembra di ritrovarsi di fronte a lavori ormai classici come il debutto dei Masters Of Reality, dischi al cui interno psichedelia, hard rock venato di Sud e umori folk convivevano e si rincorrevano senza soluzione di continuità, il che potrà magari spaventare chi è in cerca di sicurezze, ma non mancherà di intrigare chiunque apprezzi le sfide.