CRETIN, Stranger
Con il secondo album Stranger, il supergruppo Cretin continua la sua opera di resurrezione del grindcore primordiale. Il nome può far pensare al clan di bulli della scuola di Tromaville in “Class of Nuke ‘Em High”, date le sonorità gore, o alla prima traccia di Rocket To Russia dei Ramones, visto il ritorno all’old school. In ogni caso questi due mattoni concettuali reggono le fondamenta sia teoriche sia musicali della band di San Jose.
Il disco è interessante fin dai primissimi secondi, più vicini a un noise rock targato Load che al death metal della Relapse. L’illusione, però, dura pochi istanti e le chitarre isteriche di Elizabeth Schall sintetizzano l’acido lattico con assoli che fanno il verso persino a Kerry King. L’assolo non è un colpo a effetto, ma una presentazione della linea seguita per tutto il disco: la ritroviamo, oltre che in “It”, anche nelle mortali “We Live In A Cave”, uno dei pezzi più riusciti, e “Mister Frye, The Janitor Guy”. Con “We Live In A Cave” il ritmo diventa più dinamico, rimbalza in diversi tempi di blast e i ruggiti rimarcano la loro natura bestiale. Assieme al batterista Col James, il transgender Martinez, ex militante degli Exhumed e dei Repulsion, riporta il grindcore alle sue origini in ambito death metal, tanto che è importante, per godersi appieno il disco, conoscere queste radici. Molti, infatti, potrebbero avere la sensazione che i Cretin siano in tutto e per tutto una tribute band dei Repulsion, posto che le virate feroci di blast, le chitarre abissali (concentrate sulla componente gore del suono) e quella macabra impronta di marciume fanno riferimento a un genere sempre più di culto. Un ottimo esempio di tutto questo è “Freakery”, titolo anche del primo album, una canzone aggressiva che attacca e stacca le chitarre come un pugnale hitchcockiano mentre uccide la sua vittima. Originale, piuttosto, “Husband” nella quale un fischio ambiguo si confonde fra il caos fino a sembrare un grugnito maialesco, il tutto per un pezzo malato, che crea dipendenza. I Cretin, infine, riescono a chiudere l’album in modo magistrale con “How To Wreck Your Life In Three Days”, simile a un bambino che nella sua crudele ingenuità cerca di schiacciare tutte le formiche che panicano intorno al loro formicaio, con l’ascoltatore lasciato nella stessa situazione.
Il gruppo è maturato rispetto all’album del 2006, molto più grezzo e costante: oggi la violenza non è più attraversata da un muro di note, bensì da un complesso intrigo di cadenze a tempi diversi, anche se si aspetta la prossima uscita per una vera e propria concretizzazione dell’ideale old school dei Cretin.