Cosa dico quando non parlo (c’era una volta l’underground #2): Mirko Spino / Wallace Records
Dalla fine del Ventesimo Secolo, in questo nostro strambo, spesso derelitto paese, Wallace Records è stata la casa dei reietti che non si rassegnavano alle mode del momento, al post-rock con gli arpeggi aperti e i saliscendi telefonati, al combatfolk, al qualunquismo e alla superficialità. Continuando a scavare negli angoli più sporchi dei sotterranei italiani per dissotterrare pepite. Dal caso Bugo a piccoli culti come i Rosolina Mar, dove dietro ai tamburi sedeva Andrea Belfi, alla Phonometak Series con musicisti come Mats Gustaffson e Paolo Angeli. Poi Anatrofobia (e la nuova cellula ribelle Masche), A Short Apnea, Rollerball e mille altre cose. Un catalogo coraggioso e libero, che ha da poco celebrato con una compilation i suoi primi vent’anni. Era il caso di approfondire – dopo il “ricordo collettivo” della nostra redazione – con una chiacchierata con Mirko Spino, deus ex machina della Wallace, proseguendo la nostra indagine nei meandri di quello che una volta si chiamava underground, e adesso chissà come si chiama (e in fondo che importanza ha).
Con quali intenti è nata l’etichetta, venti anni fa?
Mirko Spino: Nasce senza particolari prospettive con una compilation che voleva testimoniare l’esistenza di buona musica e anche di una rete di contatti, di cui inevitabilmente io ero il centro ma che con gran soddisfazione si sono anche linkati trasversalmente con gli anni. Le prospettive, lo dico dopo vent’anni, sono: esserci, fare qualcosa, dare spazio. Mettere un mattoncino per costruire un mondo specifico: quello della controcultura e dell’antagonismo sociale, per prenderla alla larga.
Dal punto di vista economico e gestionale come funziona?
Questo aspetto per me è cambiato radicalmente. Non c’è mai stato uno standard, ma anni in cui un disco dei Bachi da Pietra poteva vendere 1000 copie mi potevo permettere di coprire anche spese produttive e maggior promozione. Oggi fatico a fare co-produzioni con altre quattro etichette. Diciamo che l’economia dell’etichetta non è mai stata un tema rilevante, ma siamo ai minimi storici…
È importante oggi la collocazione geografica o con la musica liquida, internet e tutto il resto, non cambia nulla tra stare a Milano o altrove?
Dipende se ti appoggi a una scena locale o no. Quando vivevo a Milano la Wallace si alimentava di concerti e in generale di eventi collegati alla cultura. Incontri persone e fai chiacchiere, scambi dischi a mano. Secondo me questo è quello che dà identità e genera linfa. Mentre l’aspetto puramente gestionale ormai ha bisogno solo di un wifi e ogni tanto di un corriere.
Cosa ti piace di quello che senti in giro oggi in Italia?
Non sono la persona giusta per dare un parere ma ci sono diverse scene locali che ammiro per energia e freschezza. Ammiro particolarmente il giro di Jesi, con Bloody Sound come fulcro.
Ultimamente sto frequentando la Romagna e mi piace molto quello che succede a Forlì, Cesena, Ravenna. Milano, invece, mi piace meno dal punto di vista musicale, anche se so che per il resto del mondo sembra che si stia muovendo bene. Questione di aspettative e di scene, appunto.
Hai sempre pubblicato in un supporto che sta vivendo il suo momento più buio nella sua storia, il cd. Come mai? Te lo chiedo da fan del cd.
Ma come? Non ti sei accorto del revival del cd? A me non piace, ma ci sono dischi che se fossero pubblicati in lp farebbero ancora più fatica a circolare. C’è un pubblico che ancora vuole il cd, me ne devo fare una ragione. La risposta più cinica che mi è venuta in mente è che pubblicare i cd costa meno, quindi le perdite sono inferiori.
Come ti immagini il futuro dell’etichetta?
Fuori dal web. Sarà la decima intervista in cui lo dico e non l’ho ancora fatto. E forse non lo farò nemmeno per le prossime dieci interviste, ma è l’idea che mi convince sempre di più. Il problema è che rischio di passare dalla nicchia all’estinzione, e siccome è una scelta che non riguarda solo me ma decine di band, devo trovare un buon motivo per scatenare questo suicidio di gruppo.
Etichette che senti complici, sorelle?
Bloody Sound l’ho già detta, aggiungo Boring Machines e altre etichette con cui collaboro molto spesso, dal Verso Del Cinghiale a Neon Paralleli e Villa Inferno.
Poi nella sorellanza ci sono le etichette storiche che ormai hanno smesso di pubblicare dischi: Bar La Muerte e Burp in cima.
Ultime folgorazioni musicali?
Difficilmente c’è qualcosa che mi esalta. L’ultima esaltazione l’avrò avuta tre o quattro anni fa per Sleaford Mods. Anzi no, Yonatan Gat l’anno scorso mi ha esaltato. Oggi però ascoltavo un po’ di musica nuova: 10000 Russos, Horse Lord, Cacao, Anguish. Tutta roba molto bella.
Ultime uscite, dischi di cui sei particolarmente orgoglioso?
Orgoglioso di tutte, orgogliosissimo della compilation TracceXX per la sua genesi, la partecipazione dei gruppi, dei backers che l’hanno finanziata in crowdfunding, della gente che ha partecipato alla festa dei venti anni di Wallace. Ecco, sì, grande orgoglio per quello.