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CORROSION OF CONFORMITY, No Cross No Crown

Il rientro di Pepper Keenan nei Corrosion Of Conformity (per i fan della prima ora: C.O.C.) era stato salutato con entusiasmo dai molti che ne reclamavano il ritorno già immediatamente dopo la sua scelta di dedicarsi solamente ai Down. D’altronde, non era meno febbrile l’attesa per la nuova prova di una band con ancora una volta l’organico di album classici come Deliverance e Wiseblood. Basterebbe questo a dare la misura dell’attenzione che bisogna mettere nel descrivere un disco che genera l’effetto “entusiasmo a scatola chiusa” o – peggio – insinua la voglia di farselo piacere ad ogni costo. Com’è, dunque, questo No Cross No Crown, in realtà? Quanto deve della sua forza alle suggestioni appena descritte e quanto queste, d’altro canto, possono diventare debolezze? Quesiti che sembrano spazzati via sin dalle prime note, sostituiti dalla voglia di lasciarsi prendere dalla potenza di un lavoro tanto coeso quanto sfaccettato. Il merito indiscusso è di una formazione in gran spolvero che sa snocciolare riff e anthem grandiosi come si trattasse della cosa più semplice del mondo, con quel piglio a cavallo tra hard rock e mood southern, con i Black Sabbath come numi tutelari soprattutto quando la scrittura si ammanta di oscurità, sempre comunque sul pezzo anche quando strizza un po’ troppo l’occhio a qualche riff classico o finisce per chiamare in causa senza troppi complimenti i Thin Lizzy di “Emerald” in “Forgive Me.”

Un album probabilmente ruffiano nel suo offrire all’ascoltatore esattamente quello che voleva, ma quasi impeccabile nel suo avere brani che si infilano con prepotenza in testa sin dal primo ascolto e dimostrano una classe quasi assoluta quando si tratta di certi suoni e di un linguaggio che ha visto i C.O.C. campioni indiscussi negli anni Novanta. Un po’ come accaduto di recente coi Fu Manchu, anche No Cross No Crown candida i suoi artefici a pesi massimi nella categoria di appartenenza e lascia ben pochi dubbi sulla bontà del tempo speso ad ascoltarlo.

C’è molto sud (Molly Hatchet), come si diceva, nelle pieghe delle tracce, ma anche un amore malcelato per una concezione di musica dura che si snoda attorno al potere del riff e al ruolo centrale dell’accoppiata chitarra/voce, per non parlare dei duelli tra il figliol prodigo Keenan e il suo compagno Weatherman. Non meno notevole la sezione ritmica Dean/Mullin, da sempre colonne portanti della band e qui impegnati nel sostenere con la giusta botta e la necessaria dose di energia l’avanzata della corazzata. Manca il colpo a sorpresa che faccia cadere dalla sedia, c’è forse un briciolo di mestiere, di certo un giocare su ciò che si conosce bene e si sa far meglio, ma – se questi sono i risultati – non si poteva pretendere di meglio da una band che ha serrato nuovamente i ranghi dopo una decennio e che ha offerto i suoi colpi migliori nello scorso millennio. Anzi, verrebbe da dire che in questo almeno i C.O.C. hanno saputo stupire con un’energia e una vitalità che non era scontato aspettarsi. Noi ne godiamo senza farci troppe seghe mentali.

Tracklist

01. Novus Deus
02. The Luddite
03. Cast The First Stone
04. No Cross
05. Wolf Named Crow
06. Little Man
07. Matre’s Diem
08. Forgive Me
09. Nothing Left To Say
10. Sacred Isolation
11. Old Disaster
12. E.L.M.
13. No Cross No Crown
14. A Quest To Believe (A Call To The Void)