Conversazione con Martina Raponi su “Strategie Del Rumore – Interferenze tra arte, filosofia e underground” (Auditorium Edizioni)
Vengo a conoscenza di questa pubblicazione da un amico giornalista, mi incuriosisco perché me ne parla molto bene, la leggo e mi vengono in mente tutta una serie di questioni alle quali non avevo dato in passato il giusto peso. Naturale approfondire il discorso con la diretta interessata. Questo il resoconto dell’intervista.
Ciao Martina, parto subito con uno passaggio che m’ha colpito, e non poco:
Mi vengono subito in mente parole come “resistenza”, “pratiche alternative”, affermazione del sé e legittimazione della/nella collettività. Direi che il tuo è un discorso anche fieramente “politico”. Sto esagerando nell’interpretazione? Ti confesso che ascolto musiche “rumorose” da anni e non ero mai arrivato a riflessioni cosi “problematiche” e profonde come le tue. Mi sono a un tratto sentito anche meno solo, insomma.
Martina Raponi: Il campo semantico che vuole essere evocato è proprio quello che suggerisci tu. L’idea che sottende il discorso sul Rumore è ovviamente collegata con l’idea di resistenza, di pratica alternativa e affermazione del sé. Non sono sicura rispetto alla legittimazione nella collettività, dato che non è l’obiettivo principale di molti dei casi da me analizzati. Diciamo che la collettività viene affermata per negazione e per distacco. È un’affermazione di differenza ed isolamento, che ricade nella collettività in maniera più individualista forse, ma che di certo non risulta nociva. Non è nociva perché la restituzione che ne consegue – e parlo qui del rumore nell’atto performativo – è totale, oltre che generosa, permettimi l’aggettivo. Aggiungerei anche narcisista, ma è scontato che lo sia, come molte delle pratiche estetiche.
In ogni caso, la controparte di questo ripiegamento intimo ed individualista fa capo proprio a quei concetti da te citati. Per quanto riguarda l’Harsh Noise, e gli artisti da me incontrati, è stata una rivelazione vedere quanta dedizione e costanza determinati individui impieghino per poter portare avanti e condividere determinate pratiche, pur non essendo inseriti in nessun contesto politico dichiarato od organizzato.
Il mio discorso può essere, o forse deve, essere letto come fieramente politico, ma voglio sottolineare come la mia affezione nei confronti del termine si sia svuotata di quei desideri di cambiamento effettivo del sistema in cui viviamo. Credo tuttavia che determinate pratiche debbano sopravvivere come sacche di resistenza, come alternative che possano raccogliere sempre più partecipanti e sostenitori, e diffondere il virus della divergenza a loro modo. Ogni pratica ha le sue esigenze specifiche di visibilità, comunalismo, e via dicendo.
Ciò che accade nell’esibizione live del noise in maniera particolare è la riattivazione del corpo come “timpano esteso”, e si ricollega a tutta una serie di esperienze contemporanee, come Occupy Wall Street, che più che movimenti politici di cambiamento, diventano pratiche di riconfigurazione della relazione tra corpi capaci di sentire. La musica indipendente, quella vera, è sempre stata fondamentalmente questo, a prescindere dalla progettualità politica. Questo discorso riguarda la musica tanto quanto gli altri sistemi artistici. Riguarda il noise tanto quanto noi, come individui, come comunità (plurali).
Ora facciamo un passo indietro. Chi sei e da dove vieni lo spieghi in parte nel libro, e io più che altro vorrei sapere perché hai ritenuto necessario scriverlo.
Voglio rispondere partendo da un dramma personale: il name dropping, in qualsivoglia contesto, ma soprattutto in quello musicale, mi ha sempre provocato un terribile prurito. Anche io in passato mi sono piegata a questa prassi, che quasi diventa una necessità in determinati ambienti. È per questo che ho deciso di scrivere un libro che non vuole essere una ricognizione enciclopedica del noise e dell’harsh noise italiano o europeo. Enumero dei casi di ricerca, nostrani come anche europei e nordamericani, che però vengono considerati da prospettive diverse da quella della critica musicale. La priorità per me, già dalla fase preliminare di ricerca, era scrivere di determinate pratiche, e decodificarle attraverso dispositivi offerti da altre arti e altri sistemi, trovando un punto di vista personale che, per quanto non scientifico, potesse giustificare la mia posizione, come anche quella di coloro che figurano nel libro.
A questo aggiungo anche un dettaglio molto importante: esiste una vasta bibliografia sul rumore, sulle pratiche artistiche sonore, e sulle filosofie che attorno ad esse si coagulano. Tuttavia questa letteratura si presenta perlopiù in lingue straniere. Nel nostro paese manca un’offerta editoriale di questi titoli in italiano, o anche solo una distribuzione efficiente degli stessi in lingua originale. L’acquisto online è sempre una buona alternativa, ma l’incontro fortuito – fisico – con i libri è una magia cui voglio continuare a credere. Nel mio libro ho provato a raccogliere alcune delle opere in questione (una parte molto minima!), e la bibliografia diventa in questo modo parte integrante del progetto, non una semplice appendice.
In ultima istanza posso anche dirti che, proprio per la volontà anti-enciclopedica e anti-categoriale, “Strategie del Rumore” vuole essere un invito al dialogo, per affiliazione o per contrasto. Sono aperta ad entrambe le modalità, e a tutte le sfumature che possono esserci tra l’una e l’altra.
Altra domanda che viene naturale porti. Sei giovane, ma dopo gli studi padovani e bolognesi te ne sei andata in Olanda. Come mai questa scelta?
Come molti degli accadimenti determinanti della mia esistenza, il mio trasferimento ad Amsterdam è capitato per caso. Assecondando un’inquietudine viscerale che mi assillava, ho mandato una candidatura al Sandberg Instituut (ingenuamente, in ritardo di tre mesi rispetto alla scadenza ufficiale del bando) proponendo il mio libro come punto di partenza per sviluppi di indagine ulteriori, nell’ambito di un programma di ricerca artistica. Mi hanno risposto in maniera più che entusiasta e mi hanno accolta a braccia aperte. In meno di un mese mi sono trasferita, ed ora eccomi qui! Sto continuando a lavorare sul Rumore da un punto di vista più filosofico e sistemico, mentre provo a navigare i contesti della musica e delle arti contemporanee nel territorio olandese. Non ti nascondo però che trasferirmi nei Paesi Bassi è stata sia un’esperienza rivelatrice che frustrante. Sono sempre stata molto critica nei confronti di tutte le città in cui ho vissuto, immagina poi dover essere critica non solo nei confronti di una singola città, ma di una intera nazione e un intero popolo! Esagero, ovviamente. Ma posso dire con certezza che vivere qui mi sta aiutando a trovare un equilibrio personale ma soprattutto intellettuale, senza rinnegare, anzi valorizzando, le mie radici.
A un certo punto citi, e non a caso, John Cage:
Ne è passato di tempo, lo sappiamo, e Cage pre-vede tutto quello che è poi puntualmente avvenuto: la prepotente ascesa della tecnologia, e l’uso che se ne fa. Anche qui mi vengono in mente, pensando al tuo lavoro, parole come “autoproduzione”, rapporto frontale uomo-tecnologia, gestione delle fonti sonore più disparate per creare rumore-suono-nell’ambiente. Immagino che tu stessa sia affascinata dai risultati che stanno caratterizzando da tempo ormai la vita quotidiana dell’uomo contemporaneo, alludo chiaramente anche alla dimensione da concerto/esibizione.
L’aspetto fondamentale che mi preme sottolineare rispetto alla tua domanda, punto di partenza della mia risposta, specie per quanto riguarda l’argomento del libro, è il concetto di gestione della complessità, che considero analogo a ciò che Cage definisce organizzazione. Il rapporto uomo-tecnologia si basa su questa modalità di incontro, introiezione, manipolazione, controllo e anche accettazione del dispositivo informativo e tecnologico, o persino sottomissione ad esso, se vogliamo. Come scrivo nel paragrafo dedicato ai C.C.C.C., c’è una profonda consapevolezza da parte dei Noiser rispetto al fatto che, con il boom dell’informazione, si possa generare anche il boom del controllo dell’informazione. Va da sé che il momento performativo dell’Harsh Noiser in qualche modo risponde a questa esigenza di gestione secondo delle costanti che possono essere ravvisate quasi sempre.
Queste modalità, nei casi da me analizzati, non hanno bisogno di rispondere all’urgenza di innovazione. Questi, trascendendo ogni intellettualismo, ogni ricerca avanguardistica o hi-tech, vanno a colpire il dente dove duole, ossia: nella odierna e diffusa sensazione di solitudine. Ciò si ricollega a quella esigenza politica, in termini di corporeità, di cui ti parlavo nel rispondere alla tua prima domanda.
Incontro sempre più spesso persone che analizzano e studiano le arti sonore contemporanee provando a definirle in termini di innovazione. Questo è un termine che, generalizzando, accolgo con molto scetticismo. Cage forse aveva intuito anche questo: abbiamo esaurito gli argomenti di discussione, ciò che resta è la libertà di organizzare quel che abbiamo, di gestirne quindi la complessità, inserendo i nostri dispositivi all’interno di determinati contesti, relazionandoci ad essi consapevolmente.
E ovviamente, in tutto questo, è importante esserci, sia fisicamente che intellettualmente.
Aggiungo e cito un altro passaggio che ritengo importante per questa discussione, ne accennavo nella prima domanda. A metà del libro te ne esci con un pensiero nel quale mi sono rivisto molto, che fa così:
Intanto chapeau per il coraggio di tali affermazioni. Mi viene anche da pensare che finalmente qualcuno si accorge, mettendolo per iscritto, del fatto che dietro alla musica, a certe “culture”, e a chi ne fruisce, ci sono esseri umani pensanti, operanti, etc. È un’eterna lotta insomma, non convieni?
Assolutamente sì! Oramai sono passati quasi due anni da quando ho scritto le parole che hai citato, probabilmente le riformulerei in maniera diversa oggi, ma il succo rimarrebbe lo stesso. Questo sfogo molto personale all’interno del libro riflette dei sentimenti di ansia e frustrazione che purtroppo non possono essere nascosti o negati. È un’eterna lotta perché “noi giovani” (quale definizione di giovinezza adottare, poi…) sembriamo non avere diritto ad un futuro, guardiamo ad esso come ad una minaccia, relegati ad un eterno presente di “mobilità e flessibilità” (banali eufemismi per “precarietà”) e, specie chi lavora all’interno di contesti artistici, ad uno scenario costruito, a quanto pare, “senza budget”. A pensarci è spaventoso. Il valore monetario del lavoro, specie intellettuale e creativo, si è abbassato drasticamente, se non azzerato.
Il ricorso a compromessi “di superficie” a volte è scontato, quasi vergognoso. E il problema è di natura sistemica ovviamente, e siamo tutti coinvolti, tutti complici, in un modo o nell’altro. Questa è l’ennesima frustrazione, il dissidio insolubile che, specie a livello individuale, mi assilla.
In questo panorama di schiavismi moderni il compromesso di superficie sembra essere una questione fondamentale. In realtà è il modo in cui gestiamo il resto del nostro tempo a fare la differenza. Come disseminiamo la divergenza di pensiero, come comunichiamo e scambiamo le nostre idee, e come manomettiamo quelle che ci sembrano ingiuste; dove dirottiamo le nostre energie, a quali iniziative o progetti dedichiamo il nostro più sincero supporto. La risonanza di certe pratiche, sebbene individualiste come molte di quelle che considero nel libro, non può fare a meno di scontrarsi con i sistemi in cui queste nascono. È nel punto di rottura creato da questa collisione che dobbiamo intervenire ed inserirci, consapevoli anche del fatto che proprio quei sistemi che non ci piacciono e che rigettiamo – pur dovendoli in qualche modo accettare – sono dotati di una resilienza agghiacciante. Sono capaci di fagocitare, azzerare e mercificare qualsivoglia individuo pratica o comunità.
Il Noise, come tante altre scene musicali, offre una possibilità; ma ce ne sono molte altre, di natura non puramente musicale o underground. Queste costituiscono delle falle da cui possiamo iniziare a scavare, per ridefinire il nostro spazio dell’immaginazione, il paesaggio sul quale vogliamo che le nostre esistenze si staglino, senza temere un futuro che sappiamo essere inevitabilmente mesto. Se siamo raccolti in una famiglia, una famiglia che scegliamo, che si agita si anima, e ci anima, dal sottosuolo della nostra vita di superficie, come un micelio, allora nessuna prospettiva è davvero senza speranza, nonostante le tinte fosche di cui si colora. È così che si crea quella che amo chiamare cultura, e nella quale credo più che fermamente.
Ascolti molta musica? La acquisti? E in quali formati?
Ascolto molta musica! In Italia ho lasciato a malincuore una modesta collezione di cd, vinili e cassette. Se potessi acquisterei musica anche sotto forma di cilindri di cera!
Ultimamente però devo ammettere che ne acquisto sempre meno, perché la vita in Olanda ha dei costi leggermente più alti che in Italia, e sono ancora in fase di adattamento economico. Devo anche aggiungere che, essendo cambiata la mia quotidianità, e spendendo moltissimo tempo in bici ogni giorno, o su treni e aerei più volte al mese, sempre carica di bagagli, anche io mi sono prostrata alla nuova deità contemporanea Spotify. Il che mi permette anche di ascoltare la musica brutta, ogni tanto. È sconveniente da dire in questa intervista?
Ultima e più ovvia… Scriverai un altro libro? Stai approfondendo altri aspetti per te importanti, magari sempre relativi al “rumore”?
Sto già lavorando alla mia seconda opera, ho iniziato a scrivere proprio in questi giorni. Il Rumore rimane il cuore fondamentale e centrale, ma verrà sviluppato in maniera diversa, integrando delle proposte filosofiche e teoriche che mi permettano di portarlo ad un livello interpretativo superiore. Il rumore si è scontrato rovinosamente contro la cornice concettuale del mio programma di ricerca, ma invece di disperare, ho deciso di trasformare questa difficoltà in un’opportunità. La mia idea di rumore, confluendo nel più ampio bacino della controcultura come nozione sia astratta che pratica, muterà di certo in qualcos’altro. Una cosa che posso forse anticipare con certezza, inoltre, è che non avrà una forma di saggio; probabilmente sarà un romanzo fantascientifico. E non sto scherzando!