Contraddizioni, cordofoni, foreste: intervista ad Antonio Bertoni
Antonio Bertoni è un musicista eclettico, con una visione personale e profonda: con l’alias Ongon sa regalare visioni, viaggiando sulla scia (perdonatemi, ma come Woody Allen ora mi citerò addosso) di “un incedere minimale, ripetitivo, una perfetta ipotesi di incontro tra il motorik kraut, i labirinti di Steve Reich e il flusso inesorabile delle vibrazioni terrigne della grande Madre Nera che richiama a sé e i cui suonatori richiedono migrazione, vertigine” (così scrivevo a proposito di Exuvia).
L’anno scorso, un po’ in sordina, ha pubblicato un nuovo lavoro, ne ha già pronto un altro, ed è fresco di uscita con un duo con Stefano Leonardi, di recente protagonista di un’intervista su queste pagine.
Qual è il tuo primo ricordo legato alla musica?
Antonio Bertoni: Non ho ricordi forti molto remoti legati alla musica, mi viene in mente come prima cosa un non-ricordo, in realtà. Una zia mi portò all’arena di Verona a vedere un’opera, ma io mi ricordo solo i bambini che facevano le comparse vestiti da diavoli e che ero molto invidioso, di musica o suoni nulla, nonostante i mezzi in gioco immagino fossero potenti. Non mi ha toccato, non è stata un’epifania. Devo dire che tuttora mi parla poco gran parte della musica classica, anche se è una tradizione che ammiro per alcuni aspetti, peccato molta musica europea sia troppo separata dalla vita e dalle persone da tanto tempo, io ho sempre sentito una non-appartenenza, il vuoto di non avere una cultura musicale che senta mia.
Mi racconti il tuo percorso di musicista (dimmi che hai suonato in gruppi indie nei 2000!), le collaborazioni, l’incontro con Pilia e Mongardi, quello con Stefano Leonardi e il passaggio dagli strumenti classici al guimbri? Il tuo alias Ongon?
In realtà sarei bassista e contrabbassista, per lo meno è lo strumento che ho studiato di più. Sono vecchio, infatti ho suonato metal negli anni Novanta, ho iniziato come bassista-cantante, era difficile trovare qualche musicista con cui fare altro, almeno per me. Poi ho fatto un po’ di conservatorio, un po’ di studi di musica indiana con le tabla e tanto altro per conto mio da sempre, mi sono cercato un percorso con le cose che mi interessano e sono molte. Ho suonato rock, jazz e improvvisazione radicale, non sono mai riuscito a suonare in band che lavorassero tanto, però ho potuto sperimentare e studiare tante cose diverse. Ho collaborato con altri musicisti e artisti in vari ambiti, danza, teatro e cinema. In modo sempre abbastanza irregolare. A parte con i Tongs, con cui ho fatto tre dischi e suonato con continuità per diversi anni. Il guimbri mi è capitato in casa. Di un amico che non lo usava, l’ho suonicchiato ogni tanto poi all’improvviso mi sembrava di suonarlo molto bene, con una progressione di apprendimento diversa da quella con altri strumenti che ho praticato. Mi sono capitate anche alcune esperienze simili a quello che chiamano channelling, credo, ma dopo ho studiato e trascritto parecchia roba anche un concerto intero di Mahmoud Gania. C’è qualcosa di simile allo slap del basso elettrico, tecnica che mi è sempre venuta naturale, ma il suono troppo connotato stilisticamente (a parte il mitico Les Claypool) mi ha sempre bloccato nell’usarla, invece il guimbri ha un suono spettacolare, una grande dinamica e puoi articolare e accentare molto in vari modi grazie al fatto di poter percuotere la pelle nello stesso gesto. Mongardi l’ho conosciuto perché abbiamo fatto alcuni concerti per un disco di Alberto Boccardi su cui avevamo suonato entrambi e da quel tour è nato il trio BBM, con cui pubblicheremo un nuovo disco a inizio del 2022 con un’etichetta molto interessante. Poi grazie a Paolo che suona con lui e Watt ne Il Sogno Del Marinaio a volte si riesce a coinvolgere Pilia, anche se è parecchio impegnato ovviamente. Ongon è nato da una esigenza di avere un progetto in solo dove fare davvero quello che mi interessa invece di trovare compromessi, quindi legare i miei interessi per i ritmi e le musiche tradizionali con campionamenti, sperimentazione, elettronica, synth e tutto quello che sento mio da tanto o che scopro giorno per giorno. Un contenitore dove mettere tutto e cercare di far stare insieme cose diversissime. Poi cercare un modo di legarle, la soluzione è sempre nel suono e non fuori, con idee astratte ed estranee alla materia sonora. Il suono è strano perché non lo puoi toccare ma è cosa vera e certa più di quello che puoi vedere o toccare, tutto il resto è discutibile o valido solo all’interno di un certo contesto culturale.
Che mi dici del nuovo disco con Stefano Leonardi su Astral Spirits? Come siete entrati in contatto con quest’etichetta texana? Come avete proceduto? Buona la prima, improvvisazione? Si sente un mood molto rituale/ancestrale, nient’affatto lontano da certe cose del glorioso catalogo BYG.
Vecchio stile, abbiamo scritto alla mail, nessuna risposta. Dopo qualche mese ci scrive Nate, il boss della Astral Spirits, dicendo che il disco è piaciuto molto e che torna ad ascoltarlo spesso (e che “It’s an absolutely beautiful and crazy album”), che vorrebbe pubblicarlo ma che bisogna aspettare. Così sono passati un paio d’anni ma alla fine è andata e ringraziamo molto, è tra le migliori nel suo genere al momento.
L’abbiamo registrato in un pomeriggio in modo molto tranquillo e informale, l’uso di strumenti etnici combinati con preparazioni o tecniche estese lega bene anche in mondi astratti e vagamente ancestrali senza per forza imitare strutture tradizionali o suoni della natura fricchettoni. Stefano è molto legato al free storico ma soprattutto a quello nero, oltre alle tante tradizioni sparse per il mondo. E si sente, infatti io il flauto come suono e approccio classico non lo amo molto ma adoro i flauti sporchi e ipnotici di molte musiche etniche, che poi è la parte dell’aulòs, quella dionisiaca, che è stata rimossa con l’avvento della cultura cristiana che ha indirizzato molto e ridotto le possibilità della musica europea. E ci manca tanto. L’approccio diretto e corporeo, il corpo che viene combattuto ormai da così tanto tempo che sembra normale farlo.
So che sei un ascoltatore curioso e onnivoro: cosa esce dalle tue casse ultimamente e quali sono cinque dischi fondamentali nella tua storia?
Ascolto e apprezzo cose molto diverse, però non riesco a seguire tutto anche perché sono quasi sempre immerso nel mio. Per me importanti sono tanti, mi sorprendo sempre di come ci siano sempre cose fantastiche da scoprire, presenti o passate, che spesso mi chiedo come ho fatto a perdermele. Eccone cinque, più o meno.
Duos e Duos2 di Peter Kowald (FMP), energia pura e diretta, per me questi dischi sono bellissimi.
Burundi: Musiques Traditionnelles (Ocora) contiene numerose tecniche compositive e strumentali che potrebbero creare ognuna un proprio genere, oltre a effetti acustici più complessi di molta elettronica di oggi.
Primus, Pork Soda. Poco da commentare, spacca.
William Parker e Hamid Drake – Piercing The Veil. Improvvisazione e creatività ma anche groove ed energia, che bello.
Charlemagne Palestine – Strumming Music, la prima volta che l’ho sentito la ricordo molto bene, non conoscevo quel tipo di approccio e la grande ricchezza e fascino della ripetizione, per me un capolavoro.
Di recente sto ascoltando i Širom, nel bel doppio vinile di Torto Editions, poi anche KNVF di Charmaine Lee, un disco di voce catturata con vari metodi e pettini amplificati, molto noise e musicale allo stesso tempo. Ascolto molto anche un disco della Folkways con i canti di una sciamana che era l’ultima sopravvissuta di una popolazione indigena della Terra Del Fuoco (ennesimo genocidio), hanno delle qualità ritmiche e timbriche veramente particolari, mi ha colpito molto. Infine un cofanetto comprato l’anno scorso di cd con otto dischi dei Necks, sempre a portata.
Hai pubblicato solo in digitale, l’anno scorso, un nuovo capitolo come Ongon, In Dispersione. A volte i piccoli incidenti domestici sono rivelatori: stavo facendo andare sul pc il Bandcamp di Viandes e insieme ho fatto partire, senza rendermene conto, il file del primo pezzo di Ongon; sembravano un pezzo unico, la sovrapposizione funzionava alla grande.
Premetto che il Guimbri ha una corda drone che suona solo vuota e quindi le note e le combinazioni sono limitate rispetto a nostri versatilissimi strumenti (i violini, ad esempio), ma lì sta il bello e poi strumenti che fanno bene una cosa molto specifica mi interessano molto, quasi la composizione e lo strumento si confondono, coincidono. La musica di questo strumento prevede poche note, ma bastano per fare cose interessanti e coerenti invece di sentirsi obbligati a passare mille note e modulazioni, vagare per scale e arpeggi che spesso sembra non siano motivate ma sia proprio il non avere un’idea chiara su cosa fare e comunicare a farci vagare tra tutte le note possibili. Sono un grande sostenitore dei “limiti” creativi. E le possibilità sono comunque infinite. Quando ti limiti a un certo spazio, di conseguenza quelli che erano piccoli spostamenti o variazioni diventano enormi. I due brani che hai sovrapposto hanno in più un’origine comune. Peter Kowald parlava dei suoi vari “mondi” come di composizioni aperte, con varie componenti e soluzioni da ricombinare e modificare in base alla situazione improvvisativa in cui si trovava. Questo mood “introduttivo” che caratterizza questi due brani, per me è come accendere l’incenso, segna l’ingresso in una dimensione sacra, da lì in poi si fa sul serio, se vuoi anche come un Alap all’inizio di in raga. Un modo di galleggiare che uso per momenti dove non c’è un tempo chiaro ma piuttosto oscillante e dove cerco di mantenere molta tensione. Quindi questo wall of sound alla Phil Spector versione gnaoua dovrebbe funzionare.
E In Dispersione è in ritardo ma lo sto stampando in vinile, è uscito solo in digitale perché banalmente non avevo i soldi e non mi piace tenere nel cassetto i dischi, anche se immagino che sia una pessima strategia di marketing.
Domanda didascalica: raccontami la tua psichedelia (ne sento tanta nelle cose che suoni, una benefica trance mi sembra il focus attorno al quale si muove Ongon, o ho preso un abbaglio?).
Mi piace come a tanti la musica psichedelica, ma penso e spero di attingere a una sorgente più primigenia. Sono affascinato dalle musiche “trasformative”, le musiche che vengono create per ingannare il cervello o piuttosto per sfruttarne le regole di funzionamento, il che presuppone di averle comprese o intuite, percepite. Come con i pattern inerenti, frasi che nessuno suona ma che il cervello crea combinando elementi di diverse voci costruite e intrecciate con cura a questo scopo, come nella musica per xilofoni Amadinda ugandese. Il classico effetto caleidoscopio della musica africana mi interessa da sempre, immagino come di far ruotare un oggetto dalla forma abbastanza complessa e asimmetrica e ogni volta il gioco è sottolinearne diversi elementi e variare ma senza andare per farfalle, con coerenza e organicità.
Il nuovo disco l’ho mixato quasi sempre in momenti in cui ero molto stanco e subito cadevo in uno stato di dormiveglia, esperienza interessante. Ho letto di recente che il compositore turco İlhan Mimaroğlu ascoltava le sue composizioni anche mentre dormiva, come metodo proprio, pura psichedelia. Qualche check da svegli, magari prima di fare il mastering, lo consiglio comunque.
Poi forse quello che chiamiamo psichedelia è quando a un certo punto si trascende in qualche modo dagli elementi musicali che si stanno utilizzando, si crea una dimensione a parte, un mondo “altro”, una qualità che possiamo ritrovare spesso nelle musiche collettive o comunque vissute con grande identificazione e partecipazione in quanto propria identità culturale ed espressiva.
Finisce la pandemia, hai a disposizione un botto di soldi ed un assessore illuminato ti chiama per organizzare un festival sulle montagne, dimmi la line up!
Braxton e Brötzmann che dirigono due orchestre che suonano contemporaneamente tipo i due quartetti in Free jazz di Ornette.
D’Angelo & The Vanguard.
Master Musicians Of Joujouka (ho visto un concerto di 4 ore nei dintorni di Marrakesh e sono ancora “out in space”).
Le montagne: influenzano il tuo mood compositivo, come lavori a casa? Sei un tecnologico, procedi per satori, per lente sovrapposizioni, o come? Dove la trovi la musica?
Per me l’arte è fare. Avere tante idee conta poco, perché la parte difficile è mettere molto tempo ed energia per svilupparle, cercare, ripartire da zero e creare ogni volta un metodo con situazioni che tornano, tipo déjà-vu, luoghi mentali e compositivi che a volte ti sembra prendano il tuo posto in certe fasi. Nella fase realizzativa dai veramente un senso che non siano parole con cui spiegare quello che fai, ma vera Alchimia.
Per i brani di Ongon c’è una lunga gestazione delle parti di guimbri, li suono a lungo per molto tempo le frasi e i pattern per cercare le variazioni più naturali e organiche, l’idea che mi guida è aspirare alla perfezione che i brani tradizionali raggiungono dopo secoli di limature e rielaborazioni e ricomposizioni.
Invece quello che aggiungo con vari strumenti e metodi (a parte quello che programmo con il MIDI) è spesso una prima take o comunque istintivo. Cerco di creare come un’aura intorno al guimbri, un’emanazione strettamente legata in qualche modo all’idea originaria e in questo la tecnologia, l’unione di diverse tecnologie, permette di esplorare tantissime sonorità e idee. Uso la tecnologia, quindi, ma con un rapporto un po’ contraddittorio, anche perché ho iniziato tardi sia con computer che elettronica. Ogni tanto mi emoziona anche la macchina. Mi dà anche soddisfazione, anche se a volte pensare a farsi un arco musicale nella foresta, suonarlo e abbandonarlo quando ho finito mi sembra l’unica cosa sensata.
Le montagne penso mi abbiano portato a lavorare molto da solo, ad aumentare l’introspezione, sicuramente influenzano a tanti livelli.
Cosa ti ispira oltre alla musica: film, arte, posti, via libera a quel che vuoi.
Libri e arte sicuramente, la natura, ho iniziato da poco a fare foto analogiche. Mi interessano molte cose e vedo che nonostante tutto si riesce ancora a imparare qualcosa, la retorica che si può imparare solo da giovani mi pare sia creata per indirizzare la vita delle persone.
So che hai già registrato un disco nuovo, raccontaci un poco.
È un disco lungo, ho dilatato le durate rispetto ai due precedenti ma senza abbandonare la complessità su più livelli di pattern e variazioni, ci sono alcune forme costruite e sviluppate su canti polifonici dei Pigmei Aka, elementi techno, violoncello più presente e mi sono buttato più a fondo sull’uso della voce.
Ci dici qualcosa di questo strumento magico, il guimbri, della cultura ad esso collegata, ci fai i nomi di qualche musicista? Hai avuto modo di ascoltarlo anche dal vivo e in loco, magari? Io credo di averlo sentito la prima volta in un vecchio disco di Trilok Gurtu e poi molto più di recente con Bassekou Kouyate, che però suona lo ngoni, che forse non è la stessa cosa, no? Per arrivare infine, da pochissime settimane, a Maâllem Mahmoud Gania.
Sì, sono stato in Marocco e al festival Gnawa, anche se i veri riti li fanno in altri periodi dell’anno. Ho conosciuto tanti musicisti e liutai, figure che a volte coincidono. Ovviamente trovi chi dice che Mahmoud Gania è stato l’ultimo vero custode della tradizione, chi ti dice che verso il confine con la Mauritania ci sono ancora gnaoua veramente tradizionali e tanto altro. La cosa che mi ha colpito nei concerti che ho ascoltato è che tutti sapevano le canzoni e battevano le mani, una tradizione che, anche se ha ceduto ad alcune fusioni forse discutibili, è viva e partecipata anche fuori dalla cerchia più ristretta di chi partecipa ai rituali. Ovviamente la forma concerto dei festival non è il rito tradizionale ma ben venga se tiene viva una cultura così marginale e la veicola a più persone.
Una cosa non scontata è capire che ci sono tante altre culture ricchissime e profonde, non solo musicali, oltre alla nostra, con grandi talenti che hanno pochissime possibilità rispetto a un mediocre americano o europeo.
Il guimbri fa parte di una famiglia di liuti con pelle animale a chiudere la cassa di risonanza che è diffusa con tante varianti in Africa. Ho trovato delle tracce trascrivendo musica etiope, del Chad e di altre zone, musiche che se rallentate e trasportate nel registro del guimbri sono musica gnaoua. Musiche che viaggiando verso nord con gli schiavi e i musicisti erranti hanno raccolto quello che hanno incontrato e creato numerose varianti, dallo Zar in Egitto ai Diwan in Algeria, lo Stambeli in Tunisia e i Gnaoua in Marocco (altre varianti in Libia e altri luoghi che non conosco, ovviamente). La musica potente ha sempre viaggiato e lasciato tracce, coprendo distanze anche molto maggiori e superando qualsiasi barriera naturale.
Mi pare sia interessante raccontare che un Maâllem da cui ho preso lezioni (Omar Hayat), quando gli ho chiesto se avesse suoi dischi da vendermi, mi ha risposto “YouTube” come se fosse scontato ormai considerare il proprio corpus di opere i video di bassa qualità in rete. L’ho anche sentito suonare una lila-concerto, una specie di riduzione per spettatori esterni di un rituale gnaoua (lila significa notte, sono rituali che durano appunto una notte chiamati “Lila Derdeba”): è stato veramente molto intenso.
Consiglio nel gnaoua marocchino Mohamed Kouyou, Omar Hayat e Hamid El Kasri. Anche Mustapha Bakbou, c’è una vecchia cassetta gialla sua in solo che si trova anche su YouTube ed è stupenda, devo trovare il tempo di trascrivere questa musica perché mi ha veramente travolto quando l’ho sentita, ha una qualità speciale difficile da inquadrare. L’ho visto qualche anno fa cantare a Essaouira ma non suona più il guimbri. Suonava con i Jil Jilala ai tempi, chi non li ha mai sentiti… li deve scoprire assolutamente.
Siccome mangi tanta musica, oltre a dischi fondamentali dimmi anche cinque etichette che ti interessano in modo particolare ed invece anche delle musiche, se esistono, che proprio non digerisci e perché. Una musica per essere buona che qualità deve avere al tuo orecchio? Siccome ne ascolti di tanti tipi diversi non sono così sicuro sia facile dare una risposta omnicomprensiva…
So che è un pregiudizio e ci lavorerò sopra, ma la musica irlandese mi dà veramente fastidio, proprio a pelle, penso siano le melodie e come le propongono spavaldamente.
Non amo molto il solismo come approccio, a meno che non mi parli di vette come Coltrane o di chi comunque trascende la banalità del concetto di assolo, come per esempio i master-drummer africani o Monk, mi interessa molto la complessità dei rapporti tra le parti più che un approccio gerarchico che per me ha poco senso se non ricalcare e riproporre le strutture della società in cui viviamo, non sono un grande sostenitore. La qualità che cerco spesso è appunto un vero dialogo e sviluppo di più voci, qualità polifoniche, ma anche la ricchezza di dettaglio e movimento di un timbro ben costruito, un viaggio al centro del suono, per far aleggiare anche il nome di Scelsi, compositore a cui sono molto legato.
Ecco alcune etichette tra le tante che mi interessano.
Ocora: ha fissato l’audio di molte musiche e musicisti eccezionali, di un mondo che già all’epoca era scomparso e perso per sempre.
Aum Fidelity: per il quartetto di William Parker, Cooper-Moore e altro che mi piace molto.
ECM: contiene molte cose che non amo, ma è stata importante per me e ci sono dei dischi incredibili come Urban Bushmen dell’Art Ensemble o il trio Codona e El Corazón (Don Cherry and Ed Blackwell) ma anche Paul Bley, Evan Parker e Barre Phillips, bellissimo trio.
La Sublime Frequencies e la Glitterbeat: mi piace che cerchino di dare visibilità anche ad artisti fuori dalle solite nazioni che invadono tutto. Spero che a guadagnare qualcosa non siano solo le etichette e che questi processi non portino un appiattimento ulteriore.