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CODE, mut

mut

Non so se “mut” stia per mutazione, ma in tedesco significa coraggio e quindi per me il titolo vuol dire che i Code non hanno paura di cambiare. Se i dischi precedenti potevano esser messi vicino a quelli avant-black (Arcturus e collegati…), questo nuovo, a istinto, lo accosto a etichette come la Kscope e a quei suoi gruppi sostanzialmente prog, ma che cercano di semplificarsi prendendo spunto dal post-rock e provando ad arrivare anche allo stomaco, non solo alla testa. Non si può parlare di forma canzone per i brani di mut, perché non seguono mai uno schema così chiaro e in generale non si ripetono: è difficile capire cosa stia per succedere, non perché la band vada velocissima (questo è un album in un certo senso riflessivo) e cerchi l’effetto sorpresa, ma perché ha molte idee che prova a cucire al meglio assieme. A eliminare il rischio dispersività e a tenerci incollate le cuffie alla testa ci pensa il cantante, una specie di secondo Simen Hestnæs, molto potente e teatrale, soprattutto appassionato e convinto, ma va aggiunto che pure gli strumentisti sanno essere molto immediati quando serve, esprimendo sia malinconia, sia rabbia.

L’unica sfortuna dei Code è di misurarsi nuovamente, nonostante il cambiamento, con stili e commistioni già messe in atto da nomi non di poco conto, ma né prima né adesso sembrano delle fotocopie sbiadite di qualcuno, anzi: le potenzialità continuano a esserci.