Customize Consent Preferences

We use cookies to help you navigate efficiently and perform certain functions. You will find detailed information about all cookies under each consent category below.

The cookies that are categorized as "Necessary" are stored on your browser as they are essential for enabling the basic functionalities of the site. ... 

Always Active

Necessary cookies are required to enable the basic features of this site, such as providing secure log-in or adjusting your consent preferences. These cookies do not store any personally identifiable data.

No cookies to display.

Functional cookies help perform certain functionalities like sharing the content of the website on social media platforms, collecting feedback, and other third-party features.

No cookies to display.

Analytical cookies are used to understand how visitors interact with the website. These cookies help provide information on metrics such as the number of visitors, bounce rate, traffic source, etc.

No cookies to display.

Performance cookies are used to understand and analyze the key performance indexes of the website which helps in delivering a better user experience for the visitors.

No cookies to display.

Advertisement cookies are used to provide visitors with customized advertisements based on the pages you visited previously and to analyze the effectiveness of the ad campaigns.

No cookies to display.

COBER ORD, Le Chant Des Ruines

COBER ORD, Le Chant Des Ruines

L’ho già scritto o detto mille volte: escono troppi dischi, non c’è tempo per ascoltare e riflettere. Con i Cober Ord, un duo “dark ambient” francese, zona Pirenei, è stato un miracolo: ho letto che uno dei due si chiama Yann Hagimont e mi sono ricordato di Habsyll, un progetto nerissimo e doloroso da qualche parte tra drone e doom. Allora mi sono detto: “tientelo lì, in quell’angolo, e vai ad ascoltarlo quando riesci”. Nel caos delle scadenze e delle pressioni inutili per recensire album inutili, ho messo su questo disco spesso, magari deconcentrato, perché a livello inconscio sentivo che era superiore alla media delle uscite Cyclic Law, l’etichetta che lo ha pubblicato. Artwork eccezionale, formato A5: foto non scontate di pietre e rovine, di ruggine e legno marcio. Anche la musica proviene da pietre (c’è un litofono autocostruito tra gli strumenti), rovine, ruggine e legno marcio: oggetti percossi per un rito suicida. Il resto è dato da chitarre, distorsori e strumenti a fiato, come se un corpo di guardia di morti ci stesse accogliendo all’inferno. Quasi mai (perché anche loro fanno errori) si ha la sensazione di trovarsi in una messa in scena o all’interno di un parco dei divertimenti: il modo violento e grezzo con cui il suono viene gestito trasmette sempre una sensazione di autenticità, di pericolo reale, di possibilità concreta di farsi molto male, di tagliarsi e procurarsi brutte infezioni. Certo, poi con i raffronti – per farsi capire – si torna sempre ai soliti nomi e alle solite etichette (prima Cold Meat, le cose più terrificanti di casa Radical Matters, ma anche Phurpa e drone con talvolta un retrogusto orientale), ma qui c’è un salto in avanti in termini di organizzazione delle idee, di ricchezza di spunti e di potenza espressiva: un lavoro di genere, per carità, ma che si percepisce come migliore degli altri. Dategli una chance.