COBER ORD, Le Chant Des Ruines
L’ho già scritto o detto mille volte: escono troppi dischi, non c’è tempo per ascoltare e riflettere. Con i Cober Ord, un duo “dark ambient” francese, zona Pirenei, è stato un miracolo: ho letto che uno dei due si chiama Yann Hagimont e mi sono ricordato di Habsyll, un progetto nerissimo e doloroso da qualche parte tra drone e doom. Allora mi sono detto: “tientelo lì, in quell’angolo, e vai ad ascoltarlo quando riesci”. Nel caos delle scadenze e delle pressioni inutili per recensire album inutili, ho messo su questo disco spesso, magari deconcentrato, perché a livello inconscio sentivo che era superiore alla media delle uscite Cyclic Law, l’etichetta che lo ha pubblicato. Artwork eccezionale, formato A5: foto non scontate di pietre e rovine, di ruggine e legno marcio. Anche la musica proviene da pietre (c’è un litofono autocostruito tra gli strumenti), rovine, ruggine e legno marcio: oggetti percossi per un rito suicida. Il resto è dato da chitarre, distorsori e strumenti a fiato, come se un corpo di guardia di morti ci stesse accogliendo all’inferno. Quasi mai (perché anche loro fanno errori) si ha la sensazione di trovarsi in una messa in scena o all’interno di un parco dei divertimenti: il modo violento e grezzo con cui il suono viene gestito trasmette sempre una sensazione di autenticità, di pericolo reale, di possibilità concreta di farsi molto male, di tagliarsi e procurarsi brutte infezioni. Certo, poi con i raffronti – per farsi capire – si torna sempre ai soliti nomi e alle solite etichette (prima Cold Meat, le cose più terrificanti di casa Radical Matters, ma anche Phurpa e drone con talvolta un retrogusto orientale), ma qui c’è un salto in avanti in termini di organizzazione delle idee, di ricchezza di spunti e di potenza espressiva: un lavoro di genere, per carità, ma che si percepisce come migliore degli altri. Dategli una chance.