CLARICE JENSEN, The Experience Of Repetition As Death
C’è qualcosa di tragico nell’attrito prodotto dal crine impomatato di pece che scivola sulle corde tese del violoncello di Clarice Jensen. C’è un suono non ancora coagulato, pesante ma fluido, greve eppure leggerissimo, diffuso e portatore di mille implicazioni psicoacustiche, che scorre avvolgendosi su sé stesso sino a divenire musica visionaria e generatrice. Un’esperienza vischiosa e drammatica elaborata con tensione costante e vitale dove la ripetizione come morte è un gioco di rilanci semantici in cui il suono si ricostruisce di continuo e come plasma zampilla dal corpo per incontrare l’aria, trasformando la fine in elemento primario. Gli armonici risultano sempre differenti nelle sfumature, che invece non tornano mai all’origine: la ripetizione è solo illusoria quando risonanze poderose e profonde divengono il contrappunto melodico, il racconto ematico di un’idea che arriva a compimento e si concretizza.
Clarice Jensen è una straordinaria violoncellista/compositrice che negli ultimi anni ha infilato una serie di collaborazioni di primissimo piano con nomi quali Björk e Nick Cave (pochi esempi per dare l’idea del livello di cui si parla). The Experience Of Repetition As Death è il suo terzo album solista, che segue di un paio d’anni For This From That Will Be Filled – primo lavoro ad attirare le attenzioni della critica – e l’ep Drone Studies del settembre 2019.
Le composizioni di Clarice ricordano le migliori suggestioni new age, ma l’accostamento è quantomeno riduttivo, se non del tutto errato: stilisticamente rigorosissime, si dipanano leggerissime su un disegno solido, stabile, ben costruito, simmetrico. Nello specifico, qui si potrebbe azzardare un paragone con la classicità dorica per la precisione schematica del disegno armonico dove la ripetizione si fa appunto simmetria, tanto da farmi pensare alla poderosa grandezza dei templi della Grecia arcaica. L’approccio monumentale e classico, però, non entra mai in contrasto diretto con l’altra faccia dell’esperienza musicale della compositrice, cioè quella contemporanea, legata in modo indissolubile alle più recenti evoluzioni delle pratiche d’improvvisazione. La sua capacità di affiancare velature timbriche ed armoniche – quando del tutto trasparenti e quando visibili e coprenti – ad un imponente impianto strutturale che gioca sulla poetica della ripetizione, rende possibile una commistione di linguaggi perfettamente coerente. Tale dualismo è ottenuto attraverso l’utilizzo inconsueto di loop che si sovrappongono in modo asincrono e con un morphing nel quale le cellule sonore si scompongono e si trasformano, generando flussi di segnale pertinenti che, in maniera del tutto organica, si ricompongono in altre dimensioni spaziali. Infiniti piani si intersecano fino a dare un’immagine compiuta che, all’occorrenza, può essere sondata nel dettaglio per raggiungere visioni microscopiche dettagliatissime. Ciascuno dei tanti suoni viene dal violoncello della Jensen, ogni suggestione deriva dalla sua scrittura, che rimane centrale nel processo della composizione.
L’autrice racconta di come questo disco sia la rappresentazione di un dramma tutto al femminile, a partire dal titolo: ispirato ad un verso della nota poetessa femminista statunitense Adrienne Rich, è il frutto di una riflessione sui gesti, sulla sofferenza e (se vogliamo) sulla banalità della fine. Il ricordo del periodo in cui lei e la sorella si occupavano della madre malata di leucemia, di come le tre donne si preparavano all’ultimo atto di un’esistenza, raccontato partendo dalla quotidianità di “Daily”, apertura ispirata alle varie fasi della malattia, per giungere allo strepitoso “Metastable”, che fa eco alle macchine mediche di sostentamento ai malati terminali ed ai loro ossessivi impulsi, sino ad arrivare al “momento ineluttabile” con i bellissimi e stranianti “Holy Mother” e “Final”, in cui si racconta il distacco con uno sguardo tanto delicato quanto intensamente contratto. Una narrazione lucida e disincantata di una parentesi esistenziale che conduce l’ascoltatore tra le pieghe più profonde della psiche, con uno sguardo costante alla sfera esperienziale di ognuno che rende l’intero disco fruibile a più livelli, da quelli più leggeri e godibili a quelli più profondi, intimisti e straordinariamente densi di dramma, senza che in nessun modo la resa finale risulti appesantita. Con The Experience Of Repetition As Death, Clarice Jensen restituisce all’ascoltatore una traccia densa di umano respiro in un progetto molto ben congeniato anche dal punto di vista editoriale. La FatCat Records mette quindi a segno l’ennesimo colpo ben riuscito, un rilancio ambizioso dalla visione prospettica profonda e molto lungimirante.