CHUCK JOHNSON, Balsams
Se penso alla pedal-steel guitar, la prima cosa che mi viene in testa è sicuramente “Silver Moon Over Sleeping Steeples”, quel brano divino contenuto nella parte strumentale di Gone To Earth di David Sylvian. In quel caso, era B.J. Cole a impreziosire con le sue “corde d’acciaio” quella perla assoluta del compositore inglese. Questo recente lavoro dell’americano Chuck Johnson (del 2017, ma ristampato nella passata primavera dalla Tak:til/Glitterbeat) non riesce allo stesso modo ad ergersi allo status di capolavoro, cerco di spiegare il perché. In primo luogo la pedal-steel guitar, che è qui assoluta protagonista, è probabilmente uno strumento più atto a cesellare le forme già scolpite e a donare sfumature, piuttosto che fare da voce guida. È un po’ come la velatura per il pittore, che apporta la gradazione aggiuntiva, invece della solidità del disegno. Il rischio per l’ascoltatore è perciò quello di cadere in una desolante monotonia: di fatto le tracce si somigliano un po’ tutte e risulta difficile distinguerle le une dalle altre, quasi che avessero uno stesso e tipizzato marchio di fabbrica. Chuck rimane sempre lì, in quella medesima bolla di vapore, senza troppe grandi variazioni, senza concedere improvvise possibilità di stupore, quasi come intento in un mero saggio dello strumento, dei suoi effetti e del suo estendersi crepuscolare. Il vizio principale è quello di optare per un ripetuto e stanco tema atmosferico, un’azione decisamente minimalista nell’approccio ma che sembra puntare solo alla dilatazione di un suono puramente etereo, in una maniera più improvvisata forse, che ha poco a che vedere con la tempra e le abilità del vero compositore d’ambiente. Dopotutto Johnson sembra volerci suggerire un perenne afflato ascensionale con il quale attraversare i limiti corporei della sua stanza, quello spazio intimo in cui si consuma un dialogo d’identificazione con il suono e la meditazione profonda che ne deriva; e lo fa anche grazie a soffici sussurri che possono riportare al gelido inverno delle lande desolate cantate dai Sigur Rós.
Quella di Balsams è una materia densa e avvolgente, rarefatta e impalpabile, rigorosa fluttuazione in diversi campi gravitazionali in cui permanere a lungo. Tutto sommato, però, questa sorta di flusso cosmico dalle venature country e iper-distese suona a tratti come facile easy listening con il quale accompagnare le visioni della nostra “shavasana” finale nello yoga della sera. L’ideale immagine finale non può che essere delle più banali: giaciamo in un’amaca tra le palme lungo le rive di un lago, l’amaca inizia improvvisamente a volare nell’aria tersa del tramonto, fino a sprofondare nelle galassie… ma questo non basta per convincerci a far ripartire nuovamente il giradischi.