CECIL TAYLOR, At AngelicA 2000 Bologna
Nelle ultime righe delle pagine dedicate a Cecil Taylor nel suo “Jazz!” (Edt-2009) John F. Szwed chiude con una riflessione tanto lungimirante quanto condivisibile …vederlo suonare può essere un’esperienza che cambia la vita. È vero, e quel vederlo svela quanto il gesto sia decisivo per Taylor. Potrei testimoniarlo, se servisse, con tanti altri che nel tempo hanno avuto il privilegio di incrociarlo dopo l’apoteosi dello stratosferico concerto in trio ad Umbria Jazz 1975. Ma non è nostalgia, sentimento tra l’altro rispettabilissimo, che suscita l’ascolto di “Cecil Taylor At Angelica 2000 Bologna” – due cd per i dischi di angelica – quanto la riprova ineccepibile di quanto quel turbinio di suoni che ci stregò, che assimilammo istintivamente, forse con troppa fretta, al movimento free come soluzione più logica, in realtà rappresenti fuori da ogni classificazione una delle vette più alte del pianismo contemporaneo. Questo prezioso documento sonoro – il cd 1 documenta il pianoforte solo, il cd 2 la surreale conferenza del giorno dopo – di un festival che forse meriterebbe qualche attenzione in più per le sue visionarie produzioni, ci regala una performance dove il pianista newyorkese fa esplodere tutti gli elementi caratterizzanti del proprio approccio strumentale e fisico con la tastiera. Suono, gesto, energia, parola, movimento, danza, voce, percussione, poesia, una miscela incandescente che il 10 maggio del 2000 incendiò il Teatro Comunale di Bologna. Una struttura complessa nella quale se non ti fai travolgere troppo si possono intravedere tutte le coordinate del pianismo totale tayloriano. I sapori di Madre Africa, l’approccio percussivo che rimanda a Ellington e Monk ma non disdegna l’inquietante materia bartokiana come le contrapposizioni stridenti di Stockhausen, lo stride mai come citazione ma energia pura, forza primigenia di vitalità, la danza leggera attraverso la quale Taylor mette in gioco la corporalità della musica (oscurata dalla cultura accademica) con tutta una serie di figure evocative, le parole, la voce, un reading dal sapore vagamente ginsberghiano, il gesto dada in una forma declamatoria che ricorda il teatro nõ giapponese. Ma probabilmente la scelta di sezionare Taylor non funziona un gran che, rischia di ridursi ad uno sterile esercizio di stile. Il concerto in piano solo di Bologna di venti anni fa ci trasmette statura, complessità e problematiche di un musicista che in piena libertà creativa riscrive estetiche e passioni, un jazzista che trasporta la musica afroamericana ai limiti estremi, in collisione con le forme più avanzate delle musiche del ‘900. E lo fa usando la tastiera come uno spazio da percorrere velocemente, una frenesia che disegna astratti grumi di colore tra polifonie e improvvisi momenti di stasi celeste, un Pollock della tastiera. Ma Taylor compositore? Anthony Braxton ha spesso parlato della grandezza di Taylor come compositore, per lui… un Varèse africano. Infondo anche nella performance bolognese il pianista newyorchese senza partiture non nasconde la necessità di offrire, lui che ha sempre rifiutato l’alea, a ritmi fisiologici e flusso sonoro una propria forma. Se un cd non ti cambia la vita, molto ti può aiutare.