CASINO DI TERRA, Cosa Potrebbe Accadere
Edoardo Marraffa è un musicista libero, talentuoso e intelligente, Casino Di Terra il progetto che ci mostra uno dei suoi lati più ispidi, elettrici, qui con un nuovo disco, pubblicato dalla tenace e attenta Aut Records, già monitorata su queste pagine.
Al trio, formato dal leader (sax tenore e sopranino, composizioni), Sergio Papaianni (basso elettrico) e Gaetano di Giacinto (batteria), in cinque delle otto tracce si uniscono l’arp odissey di Fabrizio Puglisi (già compagno di scorribande di Marraffa dai gloriosi giorni del collettivo Bassesfere), il violino elettrico di Valeria Sturba (complice di Vincenzo Vasi negli OoopopoiooO) e il Rhodes di Stefano De Bonis. Nessuna manovra di assestamento, si parte subito a fare legna con la title-track con un robusto jazzcore sghembo trafitto da lame affilate di synth (ottimo il lavoro di Puglisi, che apre universi nella trama fitta del pezzo). Cosa potrebbe accadere, allora, se musicisti senza timori né paraocchi decidessero di dare fondo alle loro riserve di energia e decidessero di gettarsi a perdifiato in una rincorsa brotzmanniana, inseguendo le ombre del rumore e scansando le buone maniere? Accadrebbe che ascolteremmo incontri impossibili tra hardcore evoluto e funk ipercinetico, sotto lo sguardo sornione di John Zorn, afrobeat obliqui e acidi (“Orlando”, con la Sturba in grande spolvero), Lounge Lizards inzuppati nella mescalina (“Fantasmi Di Nadia”) e via discorrendo, in una sequela di numeri che piacciono per come riescono a suonare avventurosi e a presa istantanea al tempo stesso, screanzati e ruvidi, senza rinunciare mai alla pura gioia del suonare che anima ogni movimento. Poliritmi, sviluppi imprendibili, architetture pericolanti eppure solidissime, groove, groove, groove (“Red Carpet”), esterno notte ad Amsterdam (Marraffa lavora da tempo con musicisti olandesi, e in qualche modo questo secondo me si riflette nel suo approccio sottilmente ironico e anche nel suo caso sornione), fughe da ogni retorica pur restando all’interno di strade già battute (Belka, ipotetica, crudelmente languida, apparentemente minimale): del resto, la differenza spesso in questi ambiti la fanno le capacità di ricombinare gli elementi già esistenti, il talento nella scrittura e la mancanza di freni inibitori. Tutte caratteristiche in pieno possesso dei musicisti in oggetto. Cosa potrebbe accadere è un disco divertente, innanzitutto, senza essere mai banale: l’ispirazione non si mantiene sempre costante, anche se restiamo su livelli davvero buoni e sarebbe molto interessante poter ascoltare il progetto dal vivo, dove siamo certi che l’energia qui racchiusa possa sprizzare scintille. Un grande merito per chi scrive è quello di far affiorare memorie soprattutto di musiche non jazz, a testimoniare l’ampiezza del raggio di azione del trio (a me sono venuti in mente in più occasioni i Kletka Red, ad esempio). Una musica carica di un soul selvatico e felicemente maleducato (per fortuna, a che ci servono musicisti tecnicamente preparati che fanno il compitino?), tra puntuali linee di basso e l’inconfondibile e anti-retorica voce del sax, con la batteria a swingare, rotolare, sorvegliare. Una sonorizzazione rivisitata di un film con James Cagney (“Ma te ne sai di più”), un salto in Sudafrica (“La gran follia”). Cosa potrebbe accadere se dei jazzisti se ne fottessero della moda, dell’accademia, della critica, dei gusti del pubblico, dei gestori dei locali, e suonassero semplicemente quello che gli passa per la testa? Ecco.