Carpenter, master of soundtracks
Devo ammettere che quando la newyorkese Sacred Bones ha messo in giro la voce che avrebbe pubblicato questi Lost Themes, per un attimo ho trasecolato. A maggior ragione perché mi aspettavo un’operazione più o meno simile a quella fatta per Eraserhead O.S.T. di David Lynch, ed in questa sede proverò a raccontarvi di questa raccolta di pezzi inediti composti dal regista insieme al figlio Cody (dietro al progetto Ludrium) e al fido Daniel Davies, pubblicata anche in vinile con splendido artwork che più notturno non si può.
Un po’ di storia
Di John Carpenter dovreste sapere già qualcosa, immagino, ma provo lo stesso a farvi una breve introduzione (e abbiamo anche un supplemento, questa volta): figlio di un professore di musica, appassionato di western e commedie, in particolare delle pellicole di Howard Hawks, comincia molto giovane a dedicarsi alla settima arte, ma, visto che è un vero pragmatico, sa anche come fare per scrivere delle canzoni vere e proprie, non a caso le musiche per il suo film d’esordio (“Dark Star”, 1974) sono composte da lui stesso, compreso il pezzo trainante, la ballata dal sapore country “Benson Arizona”. L’umore generale della pellicola è piuttosto ironico e sembra seguire le direttive estetiche di “2001 – Odissea Nello Spazio” di Stanley Kubrick, ma Carpenter ama in maniera particolare il genere horror, e perciò prosegue spedito in quella direzione coi film successivi (celebri “Halloween”, “La Cosa”, “Christine – La Macchina Infernale”, “Essi Vivono”…). Senza dimenticare che i vari “Distretto 13 – Le Brigate della Morte” e “1997 – Fuga Da New York” e “Vampires” sono rispettivamente: una rilettura intelligente dei generi western-comedy, fantascienza e western-horror. Insomma stiamo parlando del vero “re dei generi”, e ritengo doveroso consigliarvi di fare vostro (anche se credo sia fuori catalogo da tempo) il fondamentale “John Carpenter”, edizioni Lindau, di Giulia D’Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto, lì c’è quasi tutto fino al 1999 (si ferma a “Vampires”), compresa una lunga conversazione insieme a colui che ha messo sul piatto dell’industria cinematografica hollywoodiana tutta una serie di riletture di linguaggi, compresi i relativi aggiornamenti, che non sono mai passate di moda, anzi: in questi anni di continue sfornate di serie tv più o meno di culto il suo spirito aleggia sardonico e silenzioso.
Il disco
Torniamo però ai pezzi. L’inizio è perfettamente inserito nell’idea stessa di musica per Carpenter: brevissima intro tutta dissonanze, e a seguire ritmiche squadrate e note di synth che si alternano con grande senso della melodia. “Vortex” è chiaramente un brano dalla costruzione perfetta, non manca un intermezzo – va da sé – molto “cinematico”, e la conclusione è affidata al ritorno della melodia portante. A conti fatti è l’epitome perfetta di come si scrive(va) una canzone electro-pop. La successiva “Obsidian” è invece una sorta di divertissement particolarmente anfetaminico, e complesso, dove si staglia una melodia potente che tanto assomiglia a certi brani dei Depeche Mode, quelli del periodo Black Celebration e Music For The Masses, ma sempre col caratteristico incedere “carpenteriano” nelle atmosfere; questo è l’apice, forse, di una raccolta di brani che hanno un filo conduttore ben riconoscibile. Va sottolineata pure una probabilmente voluta accentuazione sul suono, molto vigoroso, che deve altresì risultare diretto e rimanere impresso nella mente di chi ascolta, racchiuso per lo più nei canonici tre/cinque minuti di un pezzo pop. “Domain” sembra davvero uscita da una scena di “Grosso Guaio A Chinatown”, sordida e notturna, allo stesso tempo magistrale è la capacità di suonare epico (una sorta di epic pop?) senza però essere mai tedioso, anche quando il tutto si allunga a dismisura (siamo nel lato B con “Abyss” e i suoi tastieroni coraggiosi ed enfatici). “Purgatory” mescola con arguzia il solito tema con parti ritmiche che ricordano pure Morricone (ma cosa non lo ricorda, verrebbe quasi da dire…). Con l’ultima, dark, “Night” siamo dalle parti di un malcelato sentire hypnagogic, insomma Oneohtrix Point Never e James Ferraro non sembrano avere inventato proprio nulla (anche se qualche loro album è pur sempre apprezzabile, per la verità), visto che Carpenter ha semplicemente ripreso certe idee già ampiamente sviluppate prima di loro, come a chiudere un cerchio, chiamatelo pure disegno “estetico”, molto ben congegnato e intrinsecamente affascinante. D’altronde è uno che conosce a menadito questa grammatica, ce lo dimostra in maniera efficace pur partendo da uno stile certamente non nuovo, anzi, quasi sorpassato e perfino “ridicolo”, come fa notare pure la rivista americana AdHoc. Questa pubblicazione insomma, scontato sottolinearlo, farà particolarmente felici i suoi numerosi appassionati.
Ultima nota: la versione in vinile comprende il solito codice per scaricare i file dal sito dell’etichetta. Oltre ai pezzi ci sono sei remix ad opera, per la cronaca, di J.G. Thirlwell, Blanck Mass (una metà dei Fuck Buttons), ohGr (ovvero Nivek Ogre degli Skinny Puppy), Silent Servant (che stravolge un bel po’ “Vortex”), Zola Jesus e Dean Hurley, e Bill Kouligas della berlinese Pan Records. Niente di particolarmente epocale, per la verità, solo un modo come un altro, forse, per avvicinare queste canzoni al mondo più strettamente “giovanile” (o per far vedere che il regista è un’influenza per i musicisti coinvolti), che magari non conosce ancora bene il percorso artistico del film-maker statunitense.
Lato A
01. Vortex
02. Obsidian
03. Fallen
04. Domain
Lato B
01. Mystery
02. Abyss
03. Wraith
04. Purgatory
05. Night