CANAAN, Ai Margini

Messa, Zu, Ufomammut, Larsen, OvO, The Secret, Klimt 1918: italiani, indipendenti, passati per etichetta indipendente estera, nell’ordine Svart, Ipecac, Neurot, Young God (come gli Ulan Bator, che un po’ italiani sono), Load, Prophecy. Prima di loro, su Prophecy, i Canaan di Brand New Babylon nel 2000 (ancora prima i Lacuna Coil su Century Media, lo scrivo un po’ per scherzo e un po’ no). Non vuol dire niente, ma forse non proprio niente-niente, se qualcuno con un certo status agli occhi del pubblico, qualcuno che spende davvero in produzione, promozione, distribuzione decide di occuparsi di te, che vieni da un posto dove le situazioni libere sono fragili.

La traiettoria dei Canaan, fino a un certo punto, è stata simile a quella di altri che dal mondo death/doom si sono spostati su coordinate wave, nel loro caso anche verso la wave “cantautorale” italiana, vedi la collaborazione con Pedretti dei Colloquio. Il fatto che alternassero materiale vicino alla forma-canzone – per un paio di dischi non erano lontani dai Cure di Disintegration – e tracce dark ambient è stato sempre un loro tratto abbastanza inusuale e per certo distintivo. Successivamente la band è diventata proprio un caso a sé ed è emersa in modo chiaro la sua natura da studio: i Canaan non hanno mai suonato dal vivo, una cosa impensabile oggi se vuoi far ascoltare davvero la tua musica, senza che si perda durante lo scorrere infinito degli streaming e dei reel. Questo secondo pezzo del tragitto è ampiamente documentato qui, basta un link. Se abbiamo presente questa traiettoria, forse capiamo meglio anche Ai Margini.

Ai Margini è un album senza canzoni, assemblato digitalmente, con battiti scontati ma potenti che si contendono l’attenzione di chi ascolta con drappi atmosferici soffocanti, più qualche cenno di melodia. Tra le pieghe di questo sound serpeggia uno spoken word in italiano – penalizzato in parte dall’accento di chi lo performa – molto disturbante. C’è un video famoso degli Unkle, quello di Jonathan Glazer per “Rabbit In Your Headlights”, con un tizio in parka, solo, che percorre una galleria stradale bofonchiando cose incomprensibili: gli suonano, lo urtano, lo mettono sotto – la scena fa male perché è molto verosimile – ma si rialza sempre e prosegue il monologo di cui unicamente lui ha la chiave, forse. Questi per me sono i Canaan (o ciò che ne rimane) nel 2024, sarà anche perché per quel video Glazer aveva conservato i suoni dell’ambiente circostante, delle macchine e degli attori, mescolandoli col pezzo così bene che oggi non si può pensare che non ne siano parte integrante e fondamentale, sarà perché alla fine il protagonista si libera dal parka (è coperto da lividi e cicatrici), allarga le braccia, inarca la schiena e fa esplodere l’ultima macchina che lo colpisce, rimanendo illeso… ed è questo che auguro ai Canaan.