C2C 2016, 2-6/11/2016
Torino, Reggia Di Venaria – Conservatorio – Lingotto – San Salvario.
Il Club To Club non è un semplice festival: è un evento culturale che negli ultimi quindici anni ha saputo definire una nuova tipologia di esperienza musicale, che non è “immersiva” solo dal punto di vista dei live, ma lo è anche rispetto al tessuto urbano cittadino. L’idea di partenza è, infatti, sin dal 2001, quella di suddividere il programma tra diversi spazi della città sabauda, permettendo da un lato un utilizzo unico di alcune venue, come nel caso della Reggia di Venaria o del Teatro Carignano, dall’altro di riqualificare zone più periferiche, come quella che ospita lo spazio del Lingotto Fiere.
Un altro pregio è quello di aver importato, o meglio, riportato la cultura del clubbing in Italia, andando, edizione dopo edizione, a “educare” il pubblico proponendo alcuni dei migliori artisti del panorama di casa nostra e internazionale.
Mercoledì 2
L’edizione di quest’anno è stata inaugurata da un esclusivo evento di Gala tenutosi presso la Reggia di Venaria, nella meravigliosa “Galleria di Diana” che solitamente ospita l’installazione sonora “Music For The Great Gallery”, realizzata da Brian Eno.
Il contesto suggestivo è reso ancora più particolare dalla quasi totale assenza di luce che va ad accompagnare l’inizio dei live dei Gang Of Ducks, un collettivo che opera tra Torino e Berlino e che deve la propria fama non solo alla decennale presenza nell’ambiente elettronico ma anche all’aver prodotto con la sua etichetta artisti del calibro di Vaghe Stelle, Dave Saved, Sabla, Haf Haf e XIII.
Non dev’essere facile aprire ad un evento complesso e poliedrico come il C2C ma il trio, dopo una decina di minuti passati quasi in sordina, riesce a creare una performance stratificata che unisce elementi della techno più dark a sonorità più industriali che non perdono però il richiamo a suoni legati al mondo sci-fi/cyberpunk.
Il live di Elysia Crampton dà il via a quelli che possono essere considerati i momenti più “politici” di questo festival: la sua performance, infatti, verrà seguita da quella di Chino Amobi, con il quale ha collaborato in “Demon City”. I due si sono imposti negli ultimi anni tra quegli artisti che hanno maggiormente contribuito alla creazione di una nuova e influente immagine della scena elettronica, basata su sonorità che, pur mantenendosi nel dettami del genere, vanno però a creare un nuovo linguaggio di protesta e rivendicazione: basti pensare alla NON Records di Amobi, l’etichetta apolide che lotta per la redistribuzione del potere al popolo attraverso la musica.
Il set della Crampton ripropone quindi alcuni pezzi da “American Drift” e “Demon City”, dando vita ad una performance che può essere definita come una danza electro-indigena, influenzata da decine di sonorità che vanno dal prog alla minimal, passando per la trance, la psichedelia e il southern hip-hop. Un tentativo quindi di identificazione attraverso la musica che viene reso ancora più evidente dalla “corporeità” dell’esibizione durante la quale quale l’artista queer cerca più volte un contatto con il pubblico.
Giovedì 3
Il secondo giorno si apre all’AC Hotel di via Bisalta 11, quartier generale di C2C e sede di Absolut Symposium. Qui, per tre giorni, verranno ospitati workshop e interviste ad alcuni degli artisti d’eccezione del festival.
Purtroppo non riesco a partecipare a tutto ma assisto con piacere al workshop di Giovanni Ansaldo, editor musicale per Internazionale, dal titolo “How To Interview An Artist”. Sebbene i case-study da lui presentati si riferiscano ad artisti di un certo spessore e, comunque, legati alla cultura pop, trovo interessanti alcune delle sue considerazioni, trovandomi però in disaccordo con altre (come si fa a non parlare di politica in un’intervista se l’artista che ne è protagonista fa parte di una scena altamente politicizzata?).
Alle diciotto, invece, è la volta di Max Dax e di “The Multidisciplinary Vision Of Arto”, un’intervista al poliedrico e geniale Arto Lindsay che suonerà qualche ora più tardi al Conservatorio Giuseppe Verdi, dove presenterà un progetto esclusivo, accompagnato dal batterista norvegese Paal Nilssen-Love.
Intanto al Lingotto entra in scena Matthew Barnes, in arte Forest Swords, artista e produttore inglese considerato uno dei “golden kids” della nuova generazione di produttori e compositori, accanto ad artisti del calibro di Burial, Mount Kimbie e Four Tet. Il live ha in sé qualcosa di magico ed etereo: sapientemente sostenuto da dei visual che amplificano la sensazione di incorporeità, Barnes propone alcuni dei suoi brani più apprezzati, come la meravigliosa “The Weight Of Gold”, lasciando spazio anche ad improvvisazioni dai toni sfumati e dal beat martellante che, scandito in modo energico e pulsante, dà vita ad un set sorprendente e dalle tinte ambient.
Uno dei momenti più attesi è indubbiamente quello di Tim Hecker. Il canadese regala un’esibizione breve ma intensa, accompagnata dagli esperimenti di luci dell’artista berlinese MFO.
È difficile riuscire a descrivere un set di questo tipo. La parete di fumo colorato che ha diviso Hecker dal pubblico per tutta la durata del set è stata una rappresentazione abbastanza veritiera di quello che può essere un suo concerto: un muro di suoni e suggestioni, di drone e noise. Una sperimentazione continua, basata sull’alternanza di momenti chiaro/scuri, di spettri sonori, che vanno a definire un modo di intendere la musica elettronica che non si basa più, in questo caso, sull’ossessiva ripetizione di beat quanto, piuttosto, su una de-strutturazione del suono densa di micro-campionamenti e rumori che, se assemblati come un mosaico, danno vita ad una stratificazione sonora che allo stesso tempo rimane eterea.
Arca propone un live esclusivo, accompagnato dall’amico e artista visuale Jesse Kanda. Partecipare a un suo concerto è forse una delle esperienze più strane che vi possa capitare ad un festival di musica elettronica. L’approccio anticonformista è chiaro sin dai primi minuti sul palco: camicia bianca e autoreggenti non colpiscono quanto la meravigliosa performance “a cappella” che l’artista propone come intro al suo live, dimostrando delle grandissimi doti canore. Il dj-set farà poi ballare il pubblico per oltre due ore, andando a creare una struttura circolare che sembra voler proporre in parallelo una panoramica sulla storia della musica degli ultimi anni, mista ad una componente visuale che rispecchia dunque le fasi della nascita, della città industrializzata, del sesso, della morte. In poche parole: la vita.
Arca andrà quindi a mixare pezzi che provengono da differenti stili e culture, proponendo, tra l’ilarità del pubblico, un brano latino-americano, uno di Beyoncé e “My Own Summer” dei Deftones. (Serena Mazzini)
Venerdì 4
La terza serata si apre con la presenza di Anna Von Hausswolff, figlia di Carl Michael, compositore svedese di fama internazionale (e creatore del singolare progetto artistico denominato “Regno di Elgaland-Vargaland”). La ragazza ha scelto una strada senza dubbio meno impegnativa del padre, muovendosi più o meno in territori caratterizzati da una forma di rock sacrale ed oscuro, non è un caso sia in pratica una protetta degli Swans; infatti Christoph Hahn suona prima per lei e poi torna al gruppo madre. Tre quarti d’ora circa fatti di nerborute prove chitarristiche, con lei che si dimena un bel po’ sul synth e gorgheggia come può grazie alla voce piuttosto potente. Nulla di particolarmente esaltante, ma una buona partenza utile a scaldare le orecchie. (Maurizio Inchingoli)
Se qualcuno avesse avuto dei dubbi sul fatto che la cornice del C2C potesse essere il contesto ideale per ospitare gli Swans, s’è dovuto ricredere. La set-list è stata una delle più sensuali e inaspettate della storia live della band, rappresentando indubbiamente uno dei punti più alti di quel nuovo percorso che Gira ha voluto intraprendere a partire dal 2009, quando decise di riavviare le attività del gruppo. I pezzi presentati fanno quasi tutti parte dell’ultimo lavoro in studio, “The Glowing Man”, un disco intimo e allo stesso tempo feroce, che dal vivo risplende della luce dello showman Gira, un vero e proprio principe sciamano, capace di catturare l’attenzione di tutto il pubblico presente in sala che ondeggia e si lascia trasportare dalle sue movenze liquide e suadenti. La band è completamente manovrata dal frontman, un capo che è senza dubbio un perfezionista del caos controllato e che, con quelle mani che volteggiano nell’aria, riesce a suddividere perfettamente i momenti drone da quelli più sinuosi. Vederlo dirigere dal vivo è equiparabile ad un’esperienza religiosa: egli esercita un enorme potere attraverso il suo sguardo, i suoi gesti, quella voce calda e avvolgente mentre suona in modo furioso la sua chitarra, come se le sue dita toccassero il corpo caldo della donna amata… Non credo di aver visto un altro musicista con una tale presenza scenica, al punto che si può letteralmente vedere la sua musica e la sua danza prendere vita, respirare. Sul palco la band ha presentato sette pezzi, tra i quali una “Cloud Of Unknowing” dal suono minaccioso e carnale, poi “Screen Shot” che ci ha scaldati con il suo groove e “The Glowing Man”, lasciata alla fine, che ha sfiancato il pubblico con la sua ferocia; mentre gli organizzatori continuavano inutilmente a far segno di finire, lui incitava la sua band ad elevarsi, a suonare più forte, facendo diventare la musica un’entità fisica che ci ha avvolti e ci ha risucchiati, lasciandoci attoniti alla fine di tutto. (Serena Mazzini)
Durante il set di Powell al main stage decido di avventurarmi nella Sala Gialla. L’atmosfera cambia, riesco ad ascoltare un po’ di Fatima Yamaha, giusto pochi minuti per capire che la sua proposta, seppur valida a una prima veloce impressione, indugia troppo spesso in facili giri melodici, sarà forse un mio limite interpretativo o l’effetto festival che ti fa giudicare in fretta… Esco dalla sala, ma nel tornare, visto che è atteso il live di Amnesia Scanner, trovo una fila mostruosa davanti a me. Non demordo, e dopo un imbottigliamento non proprio piacevole riesco a rientrare giusto in tempo per il live del duo. Una mezz’ora scarsa, più che sufficiente però per far venire l’acquolina in bocca a più di qualcuno. Di notevole fattura e piuttosto mutevole il loro set, mai accondiscendente verso la minima forma di facilità d’ascolto, riescono nell’impresa non semplice di farsi ricordare a distanza di tempo. Un impianto ancora più potente avrebbe ingigantito il loro gioco tutto mentale e di deframmentazione dei ritmi, ma va bene cosi. (Maurizio Inchingoli)
Durante il mega dj-set di Laurent Garnier mi riposo e ballo alternativamente, l’attesa per il live degli Autechre è tanta, le gambe vengono messe a dura prova, ma le quattro del mattino finalmente arrivano. Ormai occhi ed orecchie sono stanchi e si può stare ad ascoltare qualsiasi cosa, visto che viene facile perdersi tra i pensieri del sonno. Nonostante questo, Sean Booth e Rob Brown vanno subito al sodo e con lo sguardo fisso sulle macchine catturano la necessaria attenzione. Si spengono subito le luci e partono in quarta con un buon venti minuti di prove free-form all’apparenza senza capo né coda, volumetriche e dai volumi quasi impossibili, dove si sale e si scende, e letteralmente ci si perde in questo gorgogliare techno che techno poi non è, insomma la loro è vera non-music, che solo a tratti si reimmette nei binari della melodia (e quando succede è chiaramente un bel sentire…). Ma ai due non puoi chiedere solo di ballare, a loro interessa scavare a fondo nelle ritmiche, cavare dal buco nero di certa elettronica tutto l’armamentario industrial e ambient deformandolo a loro piacimento. Un’ora di set profondo, disturbante, per nulla accondiscendente col pubblico, una parte infatti mugugna pure. Agli inglesi la cosa non interessa per fortuna, per loro suonare in un piccolo club o in situazioni più grosse come questa è esattamente la stessa cosa. Live decisamente stellare questo, per accostare banalmente la metafora al logo del festival di quest’anno, creato non a caso dal collettivo The Designers Republic (autore di quello di casa Warp). (Maurizio Inchingoli)
Andy Stott è riuscito ad affermarsi negli ultimi anni per le produzioni di altissima classe e qualità, come dimostrato con gli acclamati Luxury Problems (del 2012) e Faith In Strangers del 2014. Il sound di questo artista s’è evoluto egregiamente nel tempo, passando dalla dub techno a un suono più personale e intimo, caratterizzato da campionamenti tetri, ritmi eterei e sensuali e da un sound sintetico basato su minimali variazioni tonali. Il suo live prende vita alle cinque del mattino, un orario difficile che arriva dopo moltissime ore passate al festival, ma il set riesce ad essere così coinvolgente da farmi rimanere sospesa nel vuoto fino alle sei: kick and clap accartocciati su loro stessi, esili pennellate ai pad, texture abrasive e synth sognanti danno risalto ad una performance stratificata e dal richiamo oscuro, che è influenzata da un lato dal d’n’b e dall’altro da soluzioni più ambient. (Serena Mazzini)
Sabato 5
Purtroppo ci perdiamo tutta la prima parte, compreso il tanto pubblicizzato evento del progetto dell’israeliano Shye Ben Tzur a nome Junun con Jonny Greenwood dei Radiohaed e i The Rajasthan Express. È mezzanotte ormai, e il pubblico, ancora più numeroso del venerdì, si aspetta grandi cose da DJ Shadow. È la volta dunque del “Jimi Hendrix del giradischi”, sicuramente uno degli ospiti più attesi di quest’edizione, considerando l’enorme importanza che il suo lavoro ha avuto negli ultimi 25 anni. Proprio in occasione del suo ultimo disco The Mountain Will Fall, Joshua Paul Davies sta proponendo un live-set altamente strutturato dove ripropone i pezzi di tutta la sua discografia, accompagnato da live-visual che lo avvolgono completamente. Infatti, dopo qualche traccia, viene fatto calare un telo davanti a lui, di modo che, in combinata con lo schermo che gli sta alle spalle, si crei una sorta di effetto tridimensionale. L’esibizione inizia con alcuni pezzi tratti dall’ultimo album, come suggerito dallo stesso DJ, che prima di scaricare una raffica di beat perfettamente incastrati tra la drum machine e i colpi al piatto, ci dice “Ora facciamo qualcuna di quelle nuove”. Il pubblico è totalmente coinvolto, sullo schermo continuano a scivolare immagini che si sposano perfettamente con la pioggia sonora del Maestro, come nel caso di “Listen”, accompagnata da fiori stilizzati che prendono vita. L’Mc passa velocemente da un pezzo all’altro, col pubblico che salta, canta e tiene il tempo con le mani, finché non ci spara una raffica di numeri preziosi, come “Nobody Speak”, collaborazione con i Run The Jewels che fa totalmente impazzire la folla, mentre al microfono ci incita a “fare singalong tutti insieme”. L’apice viene raggiunto, ovviamente, nel momento in cui vengono proposti due delle cose storiche dell’artista americano, ovvero “Organ Donor” e “Midnight In A Perfect World”, vere gemme di quell’Endtroducing… che, uscito vent’anni fa, ha radicalmente cambiato il sound dell’hip-hop fino ad allora conosciuto, dando inizio a una nuova fase di “rap strumentale”. A stretto giro di posta si presenta Jon Hopkins, ormai un assiduo frequentatore del festival, ma dopo il primo quarto d’ora circa decidiamo di tornare in Sala Gialla, dove ci aspettano il live di Clams Casino e la proposta del collettivo berlinese Janus. Prima c’era stato Daphni, meglio conosciuto come Caribou. Michael Volpe è un giovanissimo beatmaker americano che, negli ultimi anni, s’è fatto conoscere e apprezzare per produzioni innovative che hanno saputo reinventare l’hip-hop, andando a definire quella nuova scena web-addicted caratterizzata dall’utilizzo di un substrato ibrido e sincretico che va ad unire più generi, e che è alla base di una nuova frontiera di produzioni che ha visto protagonisti, negli ultimi anni, artisti del calibro di Kanye West o A$AP Rocky. Relegare Clams Casino alla sola produzione hip-hop sarebbe però un errore. L’artista infatti vanta una produzione che spazia in vari generi e sonorità che emergono sapientemente durante il live: un suono oscuro e contemporaneamente emozionale, basato su sample vocali dal pitch rallentato (in “Realist Alive”, ad esempio, viene utilizzato un sample di “Hometown Glory” di Adele) e rarefatto, il massiccio uso di synth estremamente evocativi e ariosi, un beatmaking e uno stile personali che sfiorano spesso lo shoegaze. Il set passa così da sonorità più r&b-pop e modaiole a momenti trip-hop dilatati e sognanti, atmosferici. Ma è proprio l’attenzione di Clams Casino per la struttura hip-hop che rende i suoi pezzi così emotivamente devastanti: ogni brano passa infatti attraverso una costruzione esitante che esplode nel sound della drum-machine e in derive electroclash. E il senso persistente di tristezza viene comunicato proprio quando quei colpi iniziano a rarefarsi e tutto quello che resta è uno strato di malinconica foschia elettronica. In chiusura uno tra i suoi pezzi più conosciuti, “I’m God”, probabilmente il singolo con il miglior beat degli ultimi cinque anni, perfetto per dei lenti baci sotto la pioggia. (Serena Mazzini)
Alle tre in punto incomincia l’evento Janus, sponsorizzato dalla Red Bull Music Academy, che s’è presa la briga di occuparsi di tutta la parte meno nota della faccenda. Le scelte fatte sono certamente sinonimo di qualità e ce lo conferma il set squadrato ma senza cedimenti di Kablam, una che non le manda a dire, l’altra ora è appannaggio della rivelazione M.E.S.H., al secolo James Whipple, giovane producer col pallino per le dinamiche robotiche e senza fiato, espressione della migliore techno di scuola europea. Si riconoscono alcuni pezzi dall’ultimo ep per la berlinese Pan, Damaged Merc, ma vi consiglio di recuperate anche l’interessante Piteous Gate dello scorso anno. Chiude l’afroamericano Total Freedom, sento poco del suo set visto che è ora di tornare a casa. Infine ci sarebbe da segnalare anche la parte pomeridiana della domenica, quella in San Salvario (divisa tra Piazza Madama Cristina e l’Astoria) con, tra le altre cose, l’ospitata della Warp Records e il set del nuovo acquisto dell’etichetta inglese, Lorenzo Senni. Il nostro C2C però finisce all’alba, e conserviamo la netta sensazione di avere assistito a un’edizione importante. Speriamo di tornare anche il prossimo anno. (Maurizio Inchingoli)
Si ringraziano lo staff del C2C e Andrea Macchi e Daniele Baldi (sua la foto “di copertina” con Gira) per le foto gentilmente concesse.
Grazie al team di Pay No Mind To Us, We’re Just A Minor Threat per i video.