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BUFFALO GRILLZ, Martin Burger King

Tornano i braciolatori folli del grind, gli adepti di un culto carnariano che riuscirebbero a far impallidire qualsiasi fautore della dieta vegan (compreso il sottoscritto), non fosse che il contenuto ironico e demenziale del tutto resetta i normali parametri e rende impossibile prendere troppo sul serio le non-lyrics di un album con un titolo che ha del geniale.

Difatti, con una doppietta iniziale chiamata “GG Aulin” e “Lenny Grindvitz”, appare davvero arduo gestire un manipolo di assaltatori dotati di una tecnica invidiabile messa al servizio di un tritacarne sonoro inarrestabile: pura esplosione di nichilismo metal tra incursioni death e blast-beat a perdifiato.

I Buffalo Grillz assorbono i cambi di formazione senza battere ciglio per sfornare una manata a palmo aperto che ha stampato “grindcore d.o.c.” su ogni singola nota e vanta suoni spaventosi per potenza e definizione. Non mancano momenti meno incalzanti, come nell’incipit di “Carne Diem” o nella traccia finale “Le Bestie Di Santana”, piccoli squarci di luce che non stemperano la cattiveria del tutto, ma servono solo a rendere vario quel pizzico che basta l’ascolto di Martin Burger King.

Per il resto, c’è ben poco da arzigogolare o inventarsi nel descrivere un album simile: nessun testo (il booklet è completamente nero), una grafica ad hoc con un bufalo predicatore armato di Bibbia e pistola alla guida di una tropa de elite affatto rassicurante, per finire con la solita dose di irresistibile non-sense e demenzialità nei titoli dei quattordici brani.

Che altro volete che vi racconti? Del loro impegno nel sociale? Dell’innovazione sonora contenuta? Della voglia di prendersi sul serio? Chi già apprezzava continuerà a farlo, chi storceva il naso idem. Del resto, non credo sia una cosa che li interessi poi tanto. Come cantava il sosia di Paul McCartney: “Live And Let Die”.