BRIAN ENO, Reflection

La musica per aeroporti, la musica discreta, la mia vita nel cespuglio dei fantasmi, musica per film, la goccia, prima e dopo la scienza: anche solo scegliendo pochi titoli della copiosa discografia di Brian Eno, si capisce subito che abbiamo a che fare con un artista ineguagliabile e cruciale grazie alla sua rara capacità di creare suggestione, di dare voce al desiderio delle macchine, alla folta solitudine incarnata nel vivere modernissimo e digitale. Un autore naturalmente capace di far nascere storie, forse di fantacoscienza, termine e genere coniati anni fa, che il sempre sintonizzato cantante e musicista Fabrizio Tavernelli (ve li ricordate gli A.F. A.?) ha meritoriamente riportato alla luce con il suo ultimo lavoro così intitolato. Risulta in effetti semplicemente impossibile descrivere quale sia il peso nei suoni spaesati dell’oggi di un compositore come questo. Impossibile perché sappiamo tutti che le derive del cinema per l’udito sono state teorizzate lui, che dobbiamo l’idea stessa di musica ambient a lui. Roxy Music, Talking Heads, la seconda facciata di Low di Bowie, No Pussyfooting con Robert Fripp. Ed è un elenco per forza di cose parziale e monco. Siamo al cospetto di un gigante, che ancora una volta lascia orme delicate, quasi impercettibili. Perché si può dire molto, forse tutto, senza raccontare e non è sempre necessario alzare la voce, anzi, spesso avvicinarsi al bordo del silenzio regala i segreti più affascinanti. Per questo il sapore che resta dopo l’ascolto di questo vero e proprio trip nella stratosfera (le atmosfere ricordano da vicino quelle del capolavoro Plight & Premonition del 1988 di Holger Czukay e David Sylvian) è di una pacata, rarefatta malinconia. Quello stato d’animo intraducibile in italiano che gli inglesi definiscono con la parola blue. Un blu iridescente, come quello di una pietra di acquamarina. Trasparente e colmo di riflessi, di spazi. Un blu che sa di inizio, in un qualche inspiegabile modo. E proprio perché di autore universale si tratta, ecco che, all’ascolto di Reflection, l’ultima sua fatica per la Warp , un’unica traccia di 54 minuti che esce anche in versioni generative (fedele all’idea che la musica si crea nell’incontro tra ascoltatore, dispositivo ed autore e con tutto un apparato filosofico e metodologico che non mi interessa ora qui esplorare), le sensazioni si accavallano, come bolle di sapone o onde, hanno un che di ineffabile, di primigenio, di universale appunto.

Chi fosse interessato all’aspetto tecnico, dia un’occhiata al brian-eno.net per avere spiegazioni senz’altro più pertinenti ed esaurienti delle mie su come sia stata composta questa pièce. Perché il fatto è che ancora una volta, come accade spesso per le musiche che sanno davvero colpire al cuore e creare una conversazione interiore, dire di cosa sia fatta esattamente e quale sia l’alchimia che le permette di funzionare così bene (l’ho ascoltata almeno quattro volte di fila, perdendomici come in un perfetto labirinto ogni volta) non è affare semplice: ancora una volta, la somma degli elementi non corrisponde al totale. Poche, sparse note limpide e languide di tastiera (sempre poche ripeto, e sempre quelle giuste), lunghi bordoni, sirene di silicio, un lungo respiro cosmico che ha un suo ritmo senza averne nessuno, archi sintetici come arcate di città antichissime e futuribili, suoni che sembrano voci di delfini o comunque di creature di mondi subacquei. Ecco cos’è alle mie orecchie Reflection.

Pochi giorni fa ho condotto, senza pensarci troppo prima, anzi senza farlo per niente a dire il vero, un piccolo, esperimento. Nella vita di ogni giorno, oltre ad essere un musicomane terminale, faccio il maestro elementare, quest’anno insegno in una classe terza: allora nel primo pomeriggio ho deciso di fare ascoltare ai miei alunni di otto anni il disco in questione. Senza spiegare loro chi fosse l’autore, senza dire loro nulla, solo chiedendo di chiudere gli occhi e di lasciarsi portare dal suono. Per vedere che succedeva. Questi piccoli ascoltatori senza filtro, senza menate culturali di sorta, hanno in alcuni casi sentito la natura dell’opera di Eno. Una bambina ha parlato di un luogo tutto nero, dove qualcuno correva ma doveva sempre ritornare al punto di partenza. Ad un altro sono venuti in mente i viaggi nello spazio, i primi passi dell’uomo sulla luna. Ad un altro ancora un mare magico, a qualcun altro il Big Bang. Una mia collega, del tutto digiuna di ambient, vi assicuro, ha visto un grande uccello che planava. Ecco, è questo il punto. Questa musica ci fa vedere stando ad occhi chiusi. Ci fa viaggiare da fermi. Ed è per questo che gli apparentemente obsoleti supporti di plastica o di vinile hanno ancora un potere magico, sono come i funghi o gli acidi o le canne che prendemmo in gioventù, quando eravamo immortali, o come le storie dell’infanzia, o i miti greci; ci parlano di noi, sono parte di noi, sono la dimostrazione perfetta che la realtà non è solo quella che si vede. Ma è, e forse soprattutto, quella che si ascolta, che si sente. Basta chiudere gli occhi, e aprirli verso dentro.