BREATHLESS, See Those Colours Fly
Perché i Breathless non sono una band super famosa?
Perché non sono delle rockstar ricchissime?
Perché dopo quarant’anni suonano di fronte a un ristretto pubblico di soli fan?
Non fanno musica complicata, sono talentuosi, non cerebrali, dei romantici ma certo non propinano ballad sdolcinate. Non sarà, forse, che l’umanità è straordinariamente insensibile e delittuosamente composta in assoluta maggioranza da pigri “simple minds” desiderosi solo di intrattenimento (ma quanto detesto ‘sta parola)!?
È con imperdonabile ritardo (uscito nell’estate 2022 sempre per la loro Tenor Vossa) che mi ritrovo ad ascoltare See Those Colors Fly, missato dal geniale produttore newyorkese Kramer, solo dopo averli finalmente rivisti dal vivo questa primavera nel loro breve tour italiano. La sorpresa di amare immediatamente queste composizioni come fossero loro classici della prima ora è una emozione rara. Ricapitolando: Dominc Appleton (voce, tastiere) e Gary Mundy (chitarra, voce) Ari Neufeld (basso), Tristram Latimer (batteria) esordiscono a Londra nel lontano 1983, nel 1986 con Glass Beads Game (sì, “Il Gioco delle Perle di Vetro” di Hesse), è il primo lp e certo anche il nome scelto dalla band è una citazione, esplicito omaggio al film di Godard. Le atmosfere psichedeliche, intimiste, decadenti sono subito il loro marchio di fabbrica, dna che mai abbandoneranno.
Da allora, semplificando, giusto 7 dischi, tutti sulla loro label Tenor Vossa fino all’ultimo nel 2012, il doppio Green To Blue, più una svariata collezione di ep, partecipazioni straordinarie (mi è d’obbligo ricordare la meravigliosa “Kangaroo” di Alex Chilton sul primo album di This Mortal Coil cantata da Appleton).
Nel 2021 avevamo amato con la sigla Starlight Assembly la collaborazione fra Dominic Appleton e Mattero Uggeri in quel gioiello di album che è Starlight And Still Air sì, ma che dopo 10 anni di assenza della sigla, i Breathless incidessero un disco così ispirato come See Those Colors Fly sembrava solo una chimera. Si comincia con la magnetica “Looking For The Words” e già qui però ci sta una breve riflessione: è difficile, forse inutile, distinguere i nove titoli che si susseguono, perché sono palesemente un flusso di coscienza omogeneo che avvolge ed ipnotizza dalla prima nota, dai primi versi con quel cantato appletoniano che semplicemente non ha eguali e trasporta, anima e corpo, nell’universo poetico della band. Si continua con “The Party’s Not Over”, “My Heart And I”, “We Should Go Driving”, singolo apripista dell’album e via via fino alle lancinanti trame sonore delle conclusive “Somewhere Out Of Reach”, “So Far From Love”, “I Watch You Sleep”. Si rinnova l’incanto, quarantasette minuti di una fascinazione seducente che avvolge chi con cuore e testa li lascia entrare nel più ristretto, intimo, privato pantheon di quelli artisti che diventano col passare degli anni, a tutti gli effetti, dei compagni di viaggio.