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BRANCHES, Old Forgotten Places

Branches

Non se lo ricorderanno, ma il loro primo disco (Distance, 2006) l’acquistai direttamente alla fonte secoli fa. Sapevo di possedere in casa un piccolo gioiello della scena darkwave italiana degli ultimi anni, infatti non rimasi affatto stupito quando lessi sul famoso sito di compravendita che qualcuno ci aveva speso fino a 50 euro per comprarlo. Perciò me lo tengo ben stretto.

Non ditemi che ancora non avete capito di chi stiamo parlando, dai, su: sono i Branches da Messina, che ritornano a farsi sentire – dopo quasi dieci anni di silenzio – con una nuova e splendida autoproduzione dal titolo Old Forgotten Places. Alle scuole di pensiero non ho mai creduto più di tanto. A meno che non sia così evidente la cavolata, fare paragoni l’ho sempre stato considerato come un giochino gradevole, quindi, per quel che mi riguarda, ognuno può farsi i propri. Che poi i Cure degli esordi abbiano influenzato molte band goth-darkwave di mezzo mondo, beh, non è colpa mia, e comunque non è né un’eresia né un’offesa, anzi. Resta il fatto che in Italia abbiamo avuto e ci sono tuttora gruppi che si sono distinti per composizione, stile, bravura e novità: dai Deafear e Bohémien, passando per Il Giardino Violetto e Agonije, fino ad arrivare a Leave In Silence, Le Vene Di Lucretia, Lily’s Puff, i nostri Branches, e alle sfumature new-wave dei Trees e degli Argine e a quelle eteree dei Violet Tears (la lista si potrebbe allungare a dismisura). Solo una piccola curiosità/stranezza: non ho mai capito perché ancora non trovano un’etichetta, chissà, forse sono loro stessi che preferiscono le autoproduzioni, però all’interno del breve catalogo della In The Night Time li avrei visti molto bene. Pazienza, parafrasando i titoli dei due album, possiamo affermare che hanno dimezzato le distanze e finalmente sono più vicini a raggiungere questi tanto desiderati vecchi luoghi, perduti nell’angolo più remoto e buio dell’anima. Rispetto al debutto – dove erano più evidenti sonorità decadenti e ninne nanne, quelle che creano ferite interiori ma non mortali (sto pensando alla sublime “When The Dawn Comes Late”) – scavano più in fondo al cuore, alla ricerca degli ultimi pensieri autolesionisti, quelli cattivi e impenetrabili, quelli ancora mai provati. Nuotano attraverso fiumi di nerissima bile e, accompagnati da sonorità più moderne e aggressive (soprattutto nella batteria), spostano le coordinate verso supersonici intrecci (quasi) post-punk. “Declining Days” (la mia preferita), infine, è una sorta di nuova versione di “Elettrochoc” dei Matia Bazar, meno danzereccia, e ovviamente più noir e sofferta.

Quando mi hanno comunicato che i Branches erano tornati ed erano vivi e vegeti, ho fatto balzi di gioia, pensavo davvero si fossero estinti. Adesso, se tanto mi dà tanto, li risentiremo fra altri dieci anni. Purtroppo non sarò più io a scrivere il prossimo articolo, poiché già emigrato sul più oscuro, lontano e freddo satellite di Urano.

Tracklist

01. Sedna
02. Wake
03. All That Is Left
04. The Sunset Way
05. Interlude
06. The Lonely March
07. Declining Days
08. On An Ice Plate