BOTANIST, EP2: Hammer of Botany + Oplopanax Horridus
Botanist è un progetto che al momento potremmo etichettare come “black metal alternativo”. Andiamo però per piccole tappe.
Per anni dietro a questo nome si è celato qualcuno che si faceva chiamare Otrebor. Questa persona (all’epoca dei primi lavori non si sapeva se avessimo a che fare con un uomo o con una donna) aveva ascoltato molto black metal ed era rimasta affascinata dalla connessione con la natura di gran parte delle band norvegesi degli anni Novanta. Amava poi anche la musica classica di Bach, Vivaldi e Pärt.
Una volta creato il progetto a San Francisco, forse lo spirito hippy della città ha in qualche modo influito sul tema da affrontare nei testi: ovviamente si tratta della botanica, in senso stretto, classificatorio, morfologico, ma anche in senso più magico e antico (si va dall’uso curativo delle piante nell’antichità o come integrazione alimentare agli aspetti magici e alchemici).
Fin qui tutto bene. Le grafiche sono fighe, piene d’incisioni del XVI e XVII secolo e citazioni da Ulisse Aldrovandi. Le interviste a Otrebor iniziano però a rivelare i primi segni di cedimento: parla dei Botanist come di una “floral black metal band” o di una “green metal band”, unicamente per via dell’approccio ai testi; nel frattempo, nonostante la maschera, dalle foto si capisce che stiamo parlando di un uomo, nulla di male se non fosse per il venir meno di quegli attimi iniziali di mistero assoluto. La cosa sicuramente più strana, unica e che arriva subito all’orecchio, fin dai primi secondi di qualsiasi brano, risiede in quell’alternativo di prima. Sì, perché la particolarità di Botanist sta nel fatto che le canzoni sono suonate per lo più con salteri (anche detti “dulcimer martellati”), accompagnati da sfuriate di batteria tipicamente black metal, con tutte le sfaccettature stilistiche che il genere ha in sé. E poi, ovviamente, la voce urlata, a volte parlata, spesso ovattata, ma pur sempre dentro il canone di “screaming”. L’insieme, in ogni caso, è appunto così “alternative” che Metal Archives non li ha nel suo database, perché la componente fatta da strumenti “classici” li colloca troppo fuori dal metal (sui criteri utilizzati da Metal Archives servirebbe un pezzo a parte). Da un paio di anni, inoltre, al nome originario è stato aggiunto un “collective” che, in linea con le ultime mode della musica estrema, vede dei musicisti reali portare in sede live i brani composti da Otrebor, pur in assenza di una formazione stabile. Un ulteriore elemento comico è che i Botanist salgono sul palco travestiti da monaci cistercensi incappucciati, ma con collane di fiori non troppo lontane da quelle hawaiane.
La band sta pubblicando in maniera alternata full-length ed ep. Nel nostro caso, la vetrina di questa pagina è stata concessa a EP2: Hammer Of Botany, uscito originariamente nel 2015 ma solo ora arricchito da una bonus track nonché dalla versione vinilica. È impossibile citare un lavoro piuttosto che un altro, anche perché il rischio di ripetitività è alle stelle e si finisce davvero per cadere nel famoso visto uno, visti tutti. Per quello che mi riguarda Botanist poteva essere curioso agli inizi, quando la tUMULt e la Flenser lo sponsorizzavano assieme ai Palace Of Worms e a tutte quelle band freak ma intriganti che uscivano dai cataloghi delle rispettive etichette: una piccola variazione all’interno di questo microcosmo, più pittoresco e fiabesco che davvero maligno, ma in qualche modo degna di nota. Insomma, non saprei fare un paragone migliore ma, Botanist è come Joseph Kosuth: estremamente interessante per quanto riguarda la teoria, lo sviluppo e la metamorfosi del black metal. Ma, come i neon dell’artista concettuale… visto uno, visti tutti.