Boring Machines
Delle sue uscite, delle sue “creature” in un certo senso, ci siamo occupati molte volte da queste parti, di fatto s’è messa in chiaro più di qualche riga di introduzione alla Boring Machines e di conseguenza anche della famigerata Italian Occult Psichedelia, ma sono ben cosciente che l’etichetta “noiosa” non rappresenti solo quella particolare espressione artistica. Mi sono sempre chiesto poi di quanta passione e dedizione debbano esserci dietro un impegno cosi esclusivo, totalizzante, che a conti fatti rappresenta un vero atto di devozione per le musiche meno allineate d’oggi, e quindi mi sono deciso a contattare Onga in persona. La scusa è che nel 2016 si festeggeranno i dieci anni di attività, e sinceramente faccio una certa fatica a pensare a un underground senza una realtà come quella veneta. Lunga vita a Boring Machines, quindi, e buona lettura.
Ciao Onga. Allora, ho saputo che ti appresti a tagliare il traguardo dei dieci anni di attività di Boring Machines. Come definiresti questo periodo in poche battute?
In una parola: tragicomico.
Il primo decennale di Boring Machines assomiglia da vicino alla saga del Rag. Ugo Fantozzi, circondato da un buon numero di casi umani, perseguitato da eventi avversi, angherie, ma anche dalla sua stessa mediocrità.
Facciamo un passo indietro. Dimmi come e perché nasce l’etichetta, e soprattutto, me la gioco subito senza tergiversare troppo: chi te lo ha fatto fare?
Non me l’ha fatto fare nessuno, cioè potevo benissimo scegliere di starne fuori, visto che quando ho iniziato, nel 2006, avevo ben presente che il giocattolo era già rotto, che la situazione culturale andava a rotoli e che non ci sarebbero stati né guadagni né onori. Ma sta di fatto che (il mio carattere mal sopporta le ingiustizie in genere) trovavo criminale che alcuni musicisti non avessero il supporto che meritavano e credevo, credo ancora, che in Italia ci fossero un sacco di bravi da aiutare a uscire dal loro bozzolo per essere esposti ad un pubblico più ampio.
Di fatto, a seguito delle mie frequentazioni con il Madcap Collective da cui stavano sbocciando i Father Murphy, ho cominciato ad appassionarmi di tutti i meccanismi che stavano dietro alla produzione di un disco. Ho dato una mano per le loro uscite, ne ho fatto uno in collaborazione con loro e altri (My Dear Killer, la prima uscita a nome Boring Machines), poi ne ho fatto un altro da solo (Neutrino di Be Invisible Now!) e non sono più riuscito a fermarmi.
Hai sempre dato molta importanza alle scelte dei gruppi da pubblicare, da quelle nasce tutto ovviamente. Immagino tu abbia dovuto farne anche di drastiche, alludo a rinunce o a cambi di programmazione. C’è una band o artista che ti sei pentito di non aver supportato con una tua pubblicazione?
Nel 2016, oltre al decennale di Boring Machines, cade anche il decennale di On The Back Of Each Day dei Morose, prodotto da Fabrizio Modonese Palumbo ed edito da Suiteside. Io ai tempi li conoscevo già molto bene, e mi mangio le mani ancora oggi per non aver mostrato più interesse nei confronti di quel disco che ho sempre pensato sia stato promosso troppo poco. Se tieni conto che le copertine gliele ho stampate io poi…
Scelte drastiche, mah… non so se definirle drastiche, comunque sì, ho dovuto rinunciare ad alcune cose in favore di altre in questi dieci anni, ma sono contento di averle viste poi uscire su altre etichette amiche. Più che altro, sono fiero di aver fatto a meno di altre proposte che mi avrebbero sicuramente dato delle garanzie di “popolarità” maggiori rispetto alle mie uscite, ma che musicalmente non mi convincevano. Non ho mai voluto essere il rincalzo per le seghe soliste di membri di gruppi affermati, non ho mai voluto cercare la pubblicazione degli scarti di musicisti famosi. Per me la questione musicale (strano eh?) viene ancora prima di tutto e il disco che mi viene proposto mi deve convincere al 100%, come anche l’attitudine del musicista in questione. Naturalmente si commettono degli errori, chi non ne fa, ma spero ogni volta di avere imparato qualcosa. Proprio mentre scrivo, sto facendo intense session di ascolto , cercando di scremare per arrivare a decidere cosa pubblicare e cosa no. È un mestiere ingrato, perché a volte si è costretti a scegliere (de gustibus…) tra il “molto bello” e il “bellissimo”.
Purtroppo tocca fare i conti con il vil denaro, e il numero di pubblicazioni che mi posso permettere è limitato. Certo, se si vendessero più dischi il numero aumenterebbe sicuramente, non ho nessuna intenzione di ingrassare il mio conto in banca o di investire nel mattone, non avrebbe nessun senso per uno come me.
Mi racconti di come sono i tuoi rapporti con la stampa italiana, cartacea e web? Se ti va di fare qualche esternazione/sfogo contro qualcuno in particolare per me va bene. Togliersi i sassolini dalle scarpe può essere salutare, serve anche a levare dalle scatole quelli che non meritano attenzione secondo me.
I rapporti sono generalmente pacifici, non sono uno che fa uso di tecniche terroristiche da ufficio stampa, tipo il famigerato “recall” e cose simili. Quando esce un disco lo faccio sapere indistintamente a tutti, e spero che qualcuno trovi il tempo di sentirlo e magari gli piaccia e ne parli bene. Il motivo per cui mi occupo attivamente di musica indipendente è umano, è politico, non è certo una questione di business. È un modo per entrare in contatto con altri umani con i quali posso condividere spazi e tempi fuori dalla mia routine quotidiana. Vale per i musicisti come per i giornalisti. Quelli con cui ho rapporti migliori guarda caso sono quelli che ho conosciuto di persona a qualche concerto, a qualche festival. Sono persone con le quali ho avuto modo di scambiare idee ed esperienze, ma senza cercare un rapporto clientelare di qualche tipo. Ho amici che scrivono a cui non sono piaciuti alcuni miei dischi e li hanno trattati in maniera tiepida se non fredda addirittura, ma non cambia una virgola del nostro rapporto.
Poi certo, in dieci anni cose sgradevoli ne sono successe, il direttorissimo Bianchi per esempio non ha mai brillato per simpatia, ma nel nostro ultimo scambio di mail mesi fa mi ha trattato come l’ultimo dei parvenu ed io ho semplicemente pensato “sticazzi de bloap!”. Mi piace sempre citare il mio ex socio di Martini Bros, che diceva: “non prego neanche in chiesa, figurati se prego la gente”.
Per fortuna una testata non è il suo direttore e all’interno dello staff ci sono persone di pregio.
La mia idea del rapporto con la stampa è abbastanza semplice: io faccio i dischi, i recensori ne parlano per spiegare al loro pubblico cosa ci hanno sentito dentro. Ho sicuramente delle critiche da fare, in primis il fatto che in generale ci si sbrodoli tanto addosso e si dia grande rilevanza a fenomeni esteri, anche buoni, e che tendenzialmente ci si occupi troppo poco della musica prodotta in Italia. Non sto dicendo che ci debbano essere trattamenti di favore sul modello francese, dato che per un lungo periodo si è pompato pure troppo un certo indie italiano che secondo me non andava da nessuna parte. La musica italiana dovrebbe però essere inserita in un contesto internazionale dove viene giudicata senza due pesi e due misure, o peggio ancora tenendola fisicamente separata come fanno alcune testate. Non so, ci sono alcune cose che andrebbero riformulate. Ti faccio un esempio: a mio parere Von Tesla è infinitamente superiore a tutta una serie di musicisti elettronici di cui si è discusso molto in tempi recenti, eppure non si parla mai molto di lui o lo si analizza davvero poco.
Poi ogni tanto capita che qualcuno dei “nostri” comincia a girare bene fuori confine, e allora improvvisamente tutti a gridare all’eroe. Mah.
Ora mi piacerebbe sapere qual è stato il primo album che hai comprato in vita tua, e il disco, o i dischi, della tua vita.
L’espressione “disco della vita” la uso così spesso a sproposito che rischierei di non essere credibilissimo. Da ragazzino ho assorbito come una spugna i gusti degli amici del bar più vecchi, quindi mi son fatto le ossa a colpi di metallo e quelle cose là. Posso dirti che i miei primi acquisti solitari e personali hanno riguardato il mondo dell’elettronica, techno soprattutto. Nel 1989 ho avuto un’epifania dentro al Movida di Jesolo (VE), dove erano appena arrivati i suoni di Detroit. Fino al ’94 non credo di aver ascoltato una chitarra, non fosse stato per l’onnipresenza di MTV mi sarei perso pure i Nirvana (capirai). Le fonti erano un po’ il negozio di dischi per dj qui in zona, ma moltissima musica l’ho in realtà registrata dai mix che passavano in piena notte su Radio Italia Network, notti intere passate a dormire con il ronzio del motore del mangianastri vicino alle orecchie ed il volume dello stereo al minimo per non svegliare tutti.
Dopo il ’94, complici un paio di ripetenze a scuola (mica puoi coniugare la professione di clubber con quella dello studente, eh?!), ho rincontrato gente del giro più chitarroso che m’ha fatto riprendere in mano alcune cose che mi ero perso, tipo MBV, Slowdive e il resto del giro shoegaze, soprattutto nelle accezioni più ambient, che andavano quasi a toccare i fenomeni simili ma provenienti dall’opposto emisfero, tipo le uscite su Apollo, sussidiaria R&S.
Di dischi in questi venticinque anni ne ho comperati davvero tanti, molti anni fa tenevo la classica lista, ma il ritmo con cui li acquistavo superava le mie capacità di tenerne conto. Ho sempre speso quasi tutti i miei soldi per la musica, dischi, concerti e quello che ci ruota attorno. Ci sono alcuni album che riascolto con una frequenza altissima e coprono uno spazio temporale e di genere molto ampi, ma non credo di riuscire a identificarne un numero ristretto, modello isola deserta. Sicuramente, tra quelli che ho ascoltato di più in assoluto metterei l’omonimo dei Labradford, Dimension Intrusion di F.U.S.E, Viva Last Blues di Palace Music e Sound Of Confusion degli Spacemen 3, così… giusto per tracciare delle coordinate.
So che sei uno che non se ne sta con le mani in mano, ti dai da fare per supportare situazioni culturali ben precise, in fondo sei uno che è dentro e che sa, e si informa. Ti chiedo quali sono per te quelle realtà che hanno tuttora bisogno di supporto da parte della stampa e del pubblico…
Le situazioni che hanno maggiore bisogno di supporto sono quelle che sono in fase embrionale, soprattutto quelle più piccole o che vengono dai paesi di provincia. Non che non sia dovuto supporto a locali “live” delle grandi città, intendiamoci, ma potendo contare su un bacino di utenza maggiore, in una situazione logistica più compatta, in linea teorica hanno la vita un filino più facile di un locale che sta ad Inculonia, per esempio.
Ne discutevo con Jacopo dell’Ekidna di Carpi non molto tempo fa: è meglio che ci siano dieci locali che si fanno “concorrenza” che nessun locale. Ad oggi, io per vedere un concerto qualsiasi che mi piaccia almeno un poco, quindi non il mio artista preferito insomma, devo farmi almeno 40+40km magari in infrasettimanale. E do di matto quando arrivo in una città lontana ed al concerto non ci sono nemmeno tutti i “locals”, che poi magari si lagnano da qualche parte sull’internet.
Butto lì un esempio, ce ne sarebbero ovviamente altri: al di là dei gusti musicali in senso stretto, se qualcuno che abita in un raggio di un centinaio di chilometri da San Martino Spino (MO) non ha capito il valore sociale, politico ed artistico che ha presenziare e sostenere gli eventi organizzati dal Barcsòn Vècc, è meglio che se ne stia zitto a casa a guardare la De Filippi e non rompa i coglioni a parlare di musica, scena…
Mi ricollego a quanto detto prima: la musica è un fattore aggregante (sì, anche quella più isolazionista) e permette alle persone di incontrarsi. Dall’incontro delle persone nascono rapporti e idee. Dalle idee porca-puttana nascono le rivoluzioni, e non sto parlando di andare in piazza con le forche ed i rastrelli, spero che chi arriva a leggere qui abbia un minimo di capacità di astrazione. Sto parlando della condivisione di questioni inerenti alla musica, che aiuti la circolazione di dischi e band fuori dagli schemi dell’industria dell’entertainment, ma anche condivisione pratica di valori che siano anti-fascisti, anti-sessisti, anti-capitalisti, perché ce n’è un gran bisogno. Voglio dire, stanno ricominciando a vietare i libri.
I recenti sgomberi di luoghi dove tra le altre cose si faceva musica dal vivo per me significano solo che c’è il costante tentativo di radere al suolo punti di aggregazione dove si possono scambiare idee, perché le idee sono pericolose.
Frequentare e sostenere certi circuiti, ce ne sono un bel po’ in giro per lo Stivale, vuol dire, a parte godersi della buona musica, garantire la sopravvivenza di idee non allineate allo schifo che ci circonda. Io non so come sia vivere in altri posti, ma ti garantisco che ad abitare in Veneto se uno non vuole allinearsi al (mal)costume imperante deve sbattersi forte per resistere. E se stare completamente off the grid mi è impossibile, voglio che almeno il mio tempo libero sia di qualità.
L’ho già detto in altra sede, io produco dischi e avrei piacere di venderli, sia mai il contrario. Ma mi accontenterei di vendere meno dischi e vedere più gente ai concerti, sempre, non solo alle baracconate da supermarket della musica una volta l’anno.
Ora parliamo della famigerata Italian Occult Psichedelia. Per me è stato, ed è ancora in parte, un fenomeno musicale sfuggente per definizione, proprio perché nasce da istanze lontane nel tempo, da una sorta di sostrato culturale dormiente che rimane sempre difficile da portare a galla e decifrare con cognizione di causa, insomma io penso che ci vogliano studio e passione per comprenderlo appieno. A volte mi è capitato di vedere accostata quella definizione (che trovo comunque affascinante) a entità artistiche anche piuttosto diverse tra loro. Cosa ti ha portato in termini di visibilità e vendite quella definizione, e come pensi che possa ancora esser vista in futuro? Darà altri frutti secondo te? Hai feedback positivi anche dall’estero?
Ah! La cara, vecchia psichedelia occulta italiana! Quanti ricordi! Scherzo, la battuta mi viene perché di recente ne ho spesso sentito parlare “al passato”, come fosse una storia morta e sepolta, e mi vien un po’ da ridere. Italian Occult Psychedelia è una definizione coniata da Antonio Ciarletta, che in un articolo descriveva una comunanza di risultati, se non di intenti, tra il lavoro di alcuni gruppi italiani che pur non suonando passatisti, andavano a recuperare un certo feeling, dei suoni, tipicamente italiani, tipicamente mediterranei. Tra i gruppi citati ce ne sono diversi che avevano già inciso su Boring Machines ed hanno continuato a farlo in questi anni, per questo forse mi è stata a tratti appioppata una specie di patente di “padrino” all’interno del giro.
Le cose vanno considerate secondo me su due diversi piani, che si intersecano a vicenda. Musicalmente si tratta di un numero di progetti eterogeneo che ha a volte solo qualche punto di contatto dal punto di vista del suono, ma per me ad esempio sono tutti collegati da un fil rouge “psichedelico”. Lo so, i puristi inorridiranno della mia idea allargata di psichedelia, ma guardando anche solo al mio catalogo, ho sempre messo sullo stesso piano i lavori di Be Maledetto Now!, Heroin In Tahiti e La Piramide Di Sangue per esempio. Per me rappresentano tutti un tentativo di fuga dal posto dove si vive, dalla propria quotidianità. Fuga verso lo spazio, verso drogati lidi esotici o verso i deserti, sempre fuga è. Per questo motivo approvo l’utilizzo di una definizione comune in senso musicale.
Dal punto di vista “scena” (posso mettere altre virgolette?) si tratta di una serie di persone che si conoscono o anche si sono conosciute in questo periodo, e hanno avuto modo di collaborare e condividere idee e suggestioni sotto il grande ombrello IOP. Il simbolo di tutto questo è il festival Thalassa a Roma, dove negli ultimi tre anni ci si è dati appuntamento al Dal Verme con tutti i progetti considerati potenzialmente parte di questo raggruppamento. Naturalmente, come è giusto che sia, ci sono i distinguo, i detrattori, gli entusiasti a priori e tutto quel che serve appunto come corollario a un’ipotetica scena.
Cosa ha portato in termini di vendite o visibilità? Qui arriva il punto dolente. Dal mio punto di vista ancora una volta, con un masochismo ad orologeria che ormai credo sia radicato nel DNA italico (Italian Occult Masochismo?) non si è riusciti a fare quello che le truppe anglofone avrebbero fatto con estrema facilità: capitalizzare. È nata un’idea di scena (bada, non ho detto “è nata una scena”) che ha un nome accattivante? C’è un minimo di coerenza sulla quale ci si può basare? Ci sono dei punti forti che risultano interessanti anche oltreconfine? Abbiamo sufficienti skill per creare una specie di corporate identity della faccenda? Le risposte sono sì, sì, sì, sì.
Allora che si fa? Dopo essercela cantata e suonata per un po’, approfittando di qualche capoccione fuori dallo Stivale che si è appassionato alla cosa, si comincia a rompere i coglioni ovunque con il pacchetto “Italian Occult Psychedelia” che alla fine di tutto rappresenta solamente una scatola dove inserire dentro dei nomi, per semplificare la vita all’utente, la stessa cosa che venne fatta con post-rock (che c’azzeccano i Rodan coi GYBE! o i Tortoise?). Si monta a turno su un furgone e si va in giro a spaccarsi le ossa nei locali europei, con un bel set di magliette e poster serigrafati a mano che piacciono tanto ai giovani. Insomma cose così, ci si dà da fare. Invece niente, tutti a farsi le seghe mentali se è giusto o meno l’utilizzo della parola “occulto”, e un monte di altre cazzate che non portano da nessuna parte. Tipo una direzione del PD, insomma.
Per quanto riguarda i riscontri dall’estero posso dirti che Heroin In Tahiti sin dal primo disco ha fatto breccia ovunque, e il nuovo Sun And Violence è superapprezzato. Segnalerei anche che la Rocket Recordings, non proprio gli ultimi arrivati, si è portata a casa Lay Llamas e Mamuthones, questi ultimi invitati a Liverpool per il festival della psichedelia, assieme a Mai Mai Mai spinto dall’ottimo lavoro di Silvia e Andrea di Yerevan Tapes. Insomma, un po’ di carne al fuoco c’è.
Ho sentito abbastanza spesso un certo interesse o curiosità sull’argomento, alcuni supporter di Boring Machines mi hanno chiesto anche nomi e riferimenti di altre etichette e gruppi simili ma come dicevo prima, si è persa l’occasione di rendere più solida questa esperienza, a volte per colpa di una buona dose di culo pesante.
Punto il dito (modello L’Eredità) contro le band: l’anno scorso i Father Murphy hanno fatto un lunghissimo tour in America, che ha toccato anche il Messico. Gli è stato chiesto da una radio di fare una trasmissione tematica sull’Italian Occult Psychedelia, nientemeno. Hanno scritto con un certo anticipo ad un po’ di band per farsi mandare del materiale promozionale per la radio, cos’hanno ottenuto? Praticamente nulla, nessuna risposta. Ho dovuto fare io una selezione di mp3 last minute che valesse per tutti e spedirglieli.
Per quanto riguarda il futuro, in casa Boring Machines questo tipo di sonorità sono evidentemente tra le mie preferite, quindi quando capiterà l’occasione di fare uscire dischi del genere lo farò, come ho sempre fatto, indipendentemente dal fatto che si parli ancora di IOP o meno. Per farti un esempio, una delle mie ultime uscite, lo split tra Adamennon e Altaj, è un disco molto psichedelico, molto italiano.
Altra questione sulla quale si dibatte da tempo ormai: molte delle tue uscite sono in vinile. Quanto c’è di utile e di mercantile in tutto ciò? Ami un formato in particolare, o non ti interessa assolutamente nulla di questa diatriba?
Il vinile, oltre che un piccolo piacere, è una necessità. Non sono un audiofilo, ho le orecchie fottute da anni di volumi troppo alti, sono un sostenitore della sostanza sulla forma. Il vinile è ok, ha un suo fascino estetico innegabile, ma a me il cd è sempre piaciuto e l’ho accolto come una benedizione divina quando sostituì le cassette che mi hanno accompagnato per molti anni della mia vita. Adesso per questioni tecno(ideo)logiche, o per semplice ostracismo modaiolo, il cd non lo vuole più nessuno o quasi. Stampare su vinile è molto delicato e costoso e le tempistiche legate alla produzione, beh… insomma li avete letti anche voi gli articoli, ecco. Di fatto, da quando stampo solo in vinile sono costretto a limitare il numero di uscite annue e sono sottoposto a costi e sbattimenti infiniti per le spedizioni. Se non altro il fatto di stampare in vinile tendenzialmente mette un freno all’iper-produzione, anche se per il momento non sta funzionando tantissimo, a quanto pare ci sono più musicisti che compratori di dischi.
Mi dici quale band ti piacerebbe poter pubblicare? Quella dei tuoi sogni insomma…
Ti cito il Maestro: “Guardi, non ho desideri di questo tipo”.
In realtà ho una fregola pazzesca di pubblicare i lavori di un oscuro trio camuno, il cui nome non posso rivelare per questioni di sicurezza nazionale, sai l’Expo, il Giubileo, quelle cose là.
Hai intenzione di proseguire con Boring Machines? Ci sono già in cantiere nuove uscite?
L’anno prossimo intanto facciamo i dieci anni e al pensiero di questo traguardo avevo valutato diverse ipotesi, inclusa quella di scappare con la cassa. Questa soluzione è stata immediatamente accantonata per ovvie ragioni, l’unica alternativa rimasta è quella di produrre investimenti che facciano crescere il PIL, in modo da contrastare l’enorme debito, se Padoan ha bisogno di qualche consulenza (pagata) gliela posso dare di fisso, prometto che reinvesto in nuovi dischi.
È appena uscito il disco di Everest Magma, una nuova incarnazione di Rella The Woodcutter in chiave elettronica. Subito dopo mi accingo a dare un seguito al lavoro iniziato con Adriano Zanni, pubblicando il secondo episodio di “Postcards From…”, questa volta tocca a Fabio Orsi e alle sue memorie dai quattro tour fatti in Russia. Sarà ancora un lussuosissimo box di stampe singole e conterrà anche una tape con musiche inedite. Poi nel 2016 ci saranno ancora un bel po’ di uscite, sto ragionando proprio ora su cosa e quando.
Sto pensando anche a dei festeggiamenti adeguati e a qualche follia estemporanea, ma, citando nuovamente il Maestro: “il problema, mi risulta, è i soldi”.