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BONG, Mana-Yood-Sushai

Bong

Potrebbe esistere musica come quella dei Bong in un mondo senza marijuana? Ascoltando anche questo loro ultimo parto discografico, il cui nome è quello della superdivinità creatrice di altri dei nata dalla fantasia di Lord Dunsany, sarebbe molto difficile immaginare una cosa del genere. Un brano che sfiora la mezz’ora di durata, con un incessante drone di chitarra su cui si srotolano i suoni indianeggianti di uno shahi baaja e voci salmodianti che reiterano Mana-Yod-Sushai come un mantra, questa è la dopatissima title-track. E dilatazione, espansione, trascendenza, con o senza nubi di cannabis, sono di casa anche nella seconda parte del lavoro, la finto-bucolica “Trees, Grass And Stones”, che dura appena venti minuti e lascia da parte le voci per un liquido viaggio che arriva a lambire le coste del krautrock più lisergico. Al di là della predisposizione necessaria per affrontare l’ascolto di un disco del genere – no, i Bong non son certo un gruppo buono per tutte le occasioni – va detto che Mana-Yod-Sushai, licenziato come il precedente dalla agguerrita Ritual Productions, suona meglio del solito, più pulito e meno raw, merito sicuramente del raffinato lavoro svolto in fase di registrazione e missaggio (per la prima volta in uno studio professionale di Birmingham) da Greg Chandler degli Esoteric. Rispetto a Beyond Ancient Space le atmosfere sono più spostate a Est, verso l’Oriente e i suoi profumi, e se parlare di contaminazione è probabilmente un po’ prematuro, certo è che dalla base doom-drone da cui nasce il tutto si percepisce l’intenzione di andare a titillare qualche campanella tibetana. Nel loro genere è quanto di meglio si possa trovare, sempre che si abbia a disposizione una sporta di ganja o almeno qualche stecca d’incenso.