Bolombia! Intervista ai Maistah Aphrica
Gabriele Cancelli (tromba, ukulele, flauti, percussioni), Mirko Cisilino (trombone, tromba, percussioni), Clarissa Durizzotto (sax contralto, percussioni), Giorgio Pacorig (organo elettrico, Korg MS 20), Andrea Gulli (sintetizzatori, effetti, sovraincisioni), Enrico Giletti (basso elettrico), Marco D’Orlando (congas, timbales, percussioni), Alessandro Mansutti (batteria). Quasi una formazione calcistica quella di Maistah Aphrica, collettivo dal nostro amato Friuli Venezia Giulia. Cosa suonano? Sul loro Bandcamp parlano di “jazz funk in Sun Ra style, Afro-Colombian criolla, hard bop, polyrhythms and exotic melodies recalling library music from Trovajoli or Umiliani, enriched with electronic sounds and dub effects and combined in a physical and energetic sound. Groove in odd tempos to unleash dances, playing ritual melodies of imaginary populations: just like being at an African party, but never been to Africa”. Io, su queste pagine, ho citato, tra gli altri, Budos Band, Heliocentrics, The Sorts, Him, The Eternals, e ho scritto, a proposito del loro esordio (con Meow sono arrivati al secondo capitolo della loro avventura) “… siamo in una cantina di Cartagena a ballare cumbia, in una discoteca di Lagos, siamo a Chicago in un locale fumoso a smazzarci dell’hard bop, su Saturno a un rave con Sun Ra come dj, nel sud degli States a sudare funk dalla nostra camicia attillata, al battesimo del figlio albino di Ebo Taylor oppure a un party a New York coi Liquid Liquid: non abbiamo capito dove siamo alla fine, ma va benissimo così, space is the place”.
Abbiamo dato loro la parola: cercateli, ascoltateli, vedeteli assolutamente dal vivo se ne avrete la fortuna e la possibilità. Una delle migliori band italiane, senza ombra di dubbio, sotto il sole di Bolombia.
Mi raccontate la storia del gruppo, a chi è venuta l’idea, come vi siete incontrati, dove provate, come lavorate? Complicato andare in giro con una formazione così larga, no?
Marco D’Orlando: I Maistah Aphrica nascono a Dobbia (più precisamente a DobiaLab) nel 2016 da un’idea della sassofonista Clarissa Durizzotto. L’intento era quello di creare un gruppo afro-beat ma è venuto fuori tutt’altro fin da subito. Un’alterata concezione afro-beat… La formazione è rimasta invariata ad eccezione del percussionista in origine Stefano Bragagnolo (già impegnato nei Radio Zastava assieme a Gabriele Cancelli). Il lavoro principale lo si fa a prove, nel senso che qualcuno porta un’idea o un pezzo già pronto e assieme si creano nuove sezioni, si arrangia, si orchestra, si dicono cazzate e si suona. Complicato girare in otto ma molto, molto, molto bello. Specie se sei con otto compagnoni. È come andare in gita. La classe dei Maistah Aphrica… senza un/a maestro/a… nel bene e nel male.
Enrico Giletti: L’Africa è un continente misterioso e sconosciuto, almeno per me, non a caso il nome del gruppo, ci sono sì delle influenze africane ma in senso lato. Mi spiego meglio, per quanto mi riguarda il nome del gruppo non significa solo “mai stati in Africa” ma anche “mai stata Africa” e “Maestà Africa”: il primo significato è chiaro mentre il secondo è riferito alla musica che facciamo che non è mai stata musica Africana. Il terzo, invece, vuole essere un tributo al continente culla dell’umanità e quando dico questo penso principalmente dal punto di vista musicale e quindi di come la musica sia cambiata a livello globale dopo la deportazione delle popolazioni Africane e di tutti i “generi musicali” nati successivamente a quella violenza e dalla sofferenza che ha provocato.
Riguardo alla seconda parte della domanda, le spezie ci sono sì (musicalmente parlando) ma sono spesso inconsapevoli in quanto frutto di un idea d’Africa un po’ sommaria o “Europea”. Ho la fortuna però di conoscere un sacco di persone che a differenza di me non si limitano ad ascoltare bensì si informano, cercano, studiano, approfondiscono e propongono, dalle nostre parti inoltre non mancano (adesso un po’ sì, purtroppo) occasioni dove poter ascoltare musica e non solo dal vivo: festival, microfestival, nanofestival… Io adoro la musica, ho un’ottima memoria per i suoni e di conseguenza credo di aver assimilato molto più di quello che in realtà conosco.
Tutto questo per dire che probabilmente ci sono influenze Etiopi nella nostra musica, solo che io non posso confermartelo… d’altronde non sono mai stato in Africa.
In ogni caso a me attira l’Egitto, nella mia testa lo vedo come una via di mezzo tra le ritmiche Africane e le melodie Mediorientali. In Meow ci sono già suggestioni simili.
Clarissa Durizzotto: Il Medio Oriente mi ha sempre attirato molto. Fin da bambina sono sempre stata attirata da quei suoni molto sinuosi e ipnotici, strumenti a fiato fatti con le zucche e forse chissà le mie lontanissime origini turco armene si sono fatte sentire nel mio percorso musicale. Quanto alle spezie (essendo amante della cucina etiope) uso spesso il berberè anche in preparazioni “nostrane” che non lo prevedono… fusion, insomma, alla fine nella cucina come nella musica ci sono sapori e fragranze che stanno molto bene se si immagina un “sapore cosmico”.
Il primo disco è uscito autoprodotto e questo ottimo secondo capitolo, Meow, mi pare di capire abbia avuto una storia abbastanza travagliata: ci spiegate?
Marco D’Orlando: Meow era uscito autoprodotto ma nel frattempo eravamo alla ricerca di un’etichetta: l’occasione è uscita più o meno un anno dopo. Andrea Gullo era in contatto con la Black Sweat Records e successivamente al concerto allo Zuma Festival (Milano) Meow è approdato nel catalogo Black Sweat. Attualmente circolano due versioni del disco. Una in cd (autoprodotto) e una in vinile (Black Sweat). A differenziarle non è soltanto il formato, ma anche il contenuto (musicale et grafico)… via alla ricerca!
Lo chiedo a quasi tutti i musicisti del FVG con cui dialogo, quindi vi tocca: da cosa dipende questo alto tasso di creatività e di spirito libero e selvatico dalle vostre parti?
Marco D’Orlando: Wow! Che bello! Credo che diversi musicisti qui in regione abbiano un percorso molto personale. C’è chi si è inventato da solo, chi ha seguito un percorso di studi e poi cambiato strada, chi ha semplicemente una grande sensibilità e quando suona gli dà tutto. Questo ovviamente non solo qui in regione ma forse emerge questa propensione all’arrangiarsi (e quindi inventare) con quello che si ha. Poi boh… comunque anch’io mi ero fatto questa domanda tempo fa. Mi dai conferma che si sente questa cosa anche dall’esterno.
Daptone Records, The Heliocentrics, La ON U SOUND, certe ruggini e vitamine hardcore, i Fat Freddy’s Drop dopo una scorpacciata di funghi, i Meridian Brothers nel Carso, e chissà che altro: ditemi un po’ di nomi che sentite affini e/o che entrano a bollire nel pentolone dove, da bravi neri da cartolina, fate bollire l’audio-esploratore!
Marco D’Orlando: Per quanto mi riguarda Damily (scoperti allo Zuma Fest tra l’altro), Fire Orchestra, la musica tradizionale del Mali. Poi ovviamente si parte dal presupposto di creare una cosa simile a quella che ascolti o prendi ispirazione. Ma a prove si ribaltano tutte le carte ed escono i Maistah Aphrica… nel bene e nel male…
Vi danno la possibilità di organizzare un festival dove aprite e potete invitare i vostri musicisti preferiti: fuori la line-up!
Marco D’Orlando: Non saprei… mi vengono in mente Nesesari Kakalulu, un gruppo di giovinastri dalla Slovenia, nostri vicini.
Clarissa Durizzotto: Maistah Aphrica, Gato Barbieri, Soft Machine, John Coltrane.
In otto si ride di più o si litiga di più? Complicato organizzarsi logisticamente? Vi servirà una sala prove grande, immagino, o fate alla Leningrad Cowboys?
Marco D’Orlando: In otto si ride un casino. Siamo come una classe di seconda superiore. E poi sì, quando si ride troppo, si rompe il gioco… ma per pochissimo. Una frazione infinitesimale di nanosecondo. Quindi sì, ci si diverte a bestia.
Per la sala prove in realtà abbiamo sempre fatto a DobiaLab, il luogo di nascita dei Maistah. Una sala non troppo grande ma spaziosa (ex scuola materna).
Clarissa Durizzotto: Si ride! Non abbiamo mai avuto fastidi di alcun tipo, anzi! Non abbiamo particolari intoppi logistici. Diciamo che quando gli strumenti sono montati, si parte! La sala prove dove suoniamo abitualmente al DobiaLab non è enorme ma molto comoda, provvista di tutto quello che serve ma credo che se avessimo una stanza più piccola e meno organizzata andrebbe bene comunque… ripeto, quando gli strumenti sono montati, tutto è relativo poi.
Siete tutti impegnati in altri progetti, anche se la parola mi piace meno di poco possiamo definirvi una all-star band: mi raccontate le ultime cose in cui alcuni di voi sono coinvolti con relativi riferimenti discografici e progetti in cantiere?
Marco D’Orlando: Le cose più recenti che ho son 3 progetti. Drumlando: un piano trio (jazz) con Francesco De Luisa (piano) e Alessandro Turchet (contrabbasso). Quest’anno è uscito l’ultimo disco La Besta (autoprodotto). Fainas: un trio punk rock con Mirko Cisilino (farfisa) e Andrea Faidutti (basso e voce). Da poco abbiamo fatto uscire una raccolta di live (Fainas – Lives) e prima ancora una demo. Poi un progetto che non ha ancora un nome (nato l’anno scorso). Un duo con la cantante Laura Giavon. Batteria e voce principalmente, ma con incursioni di basso e percussioni. Molto primordiale. Non dò tante info perché è in divenire.
Clarissa Durizzotto: Da anni suono con Giorgio Pacorig nel Locomotive Duo (clarinetto e sax-fender Rhodes, Korg ms20) con cui abbiamo inciso Courtyard Stories per la Klopotec Records.Gli Atlanti ,trio composto da me al clarinetto ,Roberto Fabrizio alla chitarra e Giovanni Maier al violoncello;prima del lockdown c’era in cantiere di andare in studio spero si possa attuare al più presto.Mentre uno degli ultimi progetti nati prima dell’ultima ondata di Covid è un quintetto di fiati con me al clarinetto, Paolo Pascolo al flauto,Mirko Cisilino e Gabriele Cancelli agli ottoni,Martin O’Loughlin al tuba e Marko Lasic alla batteria.
Cinque dischi che vi mettono tutti d’accordo?
Clarissa Durizzotto: Difficile ma ci provo: A Kind Of Blue di Miles. Tarkus di EL &P. Thelonious Monk in San Francisco, Olè di Coltrane, Out To Lunch di Eric Dolphy.